Crema di finocchi e mele

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Anche se nei reparti fruttaverdura dei supermercati ci sono tutto l’anno, dagli ortolani seri arrivano in tardo autunno: i finocchi. Appena prima delle arance, con le quali compongono l’insalata di arance siciliana, ovvero la vetta gastronomica dell’inverno mediterraneo.

Le arance qui ancora non ci sono; il caro signor Emilio di Milis (Oristano) non ha ancora dato il via alla stagione, quindi ho abbinato i finocchi con le mele.



Per due persone:

1 finocchio piuttosto grande
2 mele piccole tipo Miali* (o altra mela “antica” non troppo dolce)
1 patata piccola
¼ di cipolla bionda
¾ di litro di brodo vegetale
1 cucchiaio scarso di yogurt tipo greco
olio extravergine di oliva
sale

Mondare i finocchi e tagliarli a pezzetti. Sbucciare e affettare sottilmente la cipolla. Mondare le mele senza sbucciarle e ridurle a pezzetti piccoli.
Sbucciare le patate e farle in piccoli pezzi.

Scaldare il brodo.

In una pentola per minestre scaldare un po’ di olio (2 cucchiai, non di più), aggiungere la cipolla e farla leggermente appassire. Unire i pezzetti di finocchio e di patata, mescolare per qualche minuto. Ricoprire con il brodo e portare a bollore.

Unire anche le mele e aggiungere altro brodo.

Portare a cottura: ci vorranno circa 20 minuti.

Allontanare la pentola dal fuoco, unire lo yogurt, regolare di sale e quindi passare il tutto con il frullino a immersione.

Servire immediatamente.


* che trovate utilizzate anche qui, nella Crema di verdure. Ma anche frutta


Riso, risi, timballi, risotti


A chi sbarca sull'isola solo in estate e pensa alla Sardegna come un tris mare-spiaggia-sole servito su rametti di mirto, sembrerà strano scoprire che ci sono più o meno 3500 ettari di risaie che danno circa 23000 tonnellate di riso l’anno. Sembra nulla se si confrontano questi dati con quelli del Piemonte, ma, fatte le debite proporzioni, non è poco. In Sardegna nel settore risicolo operano infatti 85 aziende (in Italia sono in tutto circa 4200), delle quali 80 nella provincia di Oristano e 5 in quella del Medio Campidano.



Fonti storiche segnalano il riso sull’isola non prima dell’anno 1600, quando fu servito durante un luculliano banchetto allestito per festeggiare la prima messa celebrata da Antioco Marcello, rettore di Mamoiada, sotto il regno di Filippo II di Spagna. Sappiamo che gli spagnoli avevano dimestichezza con il riso poiché da loro si coltivava fin dal Medioevo grazie agli insegnamenti degli “invasori” arabi.

La produzione per scopi commerciali è iniziata in Sardegna negli anni '30 del Novecento (all'indomani delle bonifiche dei numerosi terreni di natura paludosa) e incentivata negli anni '50. Oggi si concentra, come detto, nelle provincie di Oristano e del Medio Campidano. Nell'Oristanese la risicoltura è una delle attività agricole più diffuse e produttive per le varietà di riso tradizionali e non solo: oggi si producono in Sardegna anche varietà di riso orientali come il Thaj o il Basmati. E sono davvero ottime. Sarà la vicinanza al mare che ne esalta il sapore; sarà il terreno argilloso, che permette un minore dispendio di acqua e la concentrazione dei nutrienti; sarà la presenza di una fauna caratteristica che tiene in equilibrio il mondo della risaia (cosa c'è di più bello di trovare un fenicottero in mezzo al riso?).

Viste le premesse, l'uso del riso in cucina in Sardegna è relativamente recente; non possiamo parlare di ricette antiche, ma di un uso ormai tradizionale di certo sì. La tradizione non contempla i risotti (anche perché si richiederebbe un uso del burro che non è di queste terre), ma si esprime bene con i timballi. Timballi dolci e salati, con in comune lo stampo possibilmente di rame e con il buco al centro: s'isterzu de ràmine.

Quello dolce, per esempio, è tipico di Ardauli (meno di mille abitanti, nella regione storica del Barigadu) ed è il timballu 'e arrosu, realizzato in genere per i matrimoni. Il riso si fa cuocere a lungo in acqua salata, poi si sciacqua con il latte, quindi si mescola con uova, latte, buccia di limone grattugiata e pangrattato (a volte anche con un po' di caffè) e si stipa per bene nello stampo, nel quale verrà cotto al forno a bagnomaria coperto di strutto e zucchero. Stupendo quando esce dallo stampo, lucido grazie allo zucchero caramellato, con un peso specifico notevolissimo e un sapore… antico.

Quello salato è invece tipico dei paesi del Montiferru, come Scano Montiferro e Sennariolo. Anche questo è legato agli sposalizi – si chiama infatti sa tumballa de sos isposos – ma veniva preparato il giorno dopo la cerimonia. Giorno che vedeva ancora aggirarsi per casa parenti e amici che andavano, come impone la buona educazione, sfamati. Con gli avanzi.

Il riso andava cotto a lungo con brodo e pomodori secchi in modo da avere un bel colore ambrato. Quindi si cominciava a riempire lo stampo e, a metà altezza, si aggiungeva un ripieno di ghisadu (ragù di agnello o di altra carne a seconda della stagione) e di verdure come piselli e fave, o carciofi. Si aggiungeva poi un secondo strato di riso, pressandolo bene fino a riempire lo stampo e farne scomparire il buco. Infine si ricopriva di lardo o strutto. Cottura in forno, lenta e lunga, e poi tanta abilità e mano ferma per sformare il timballo senza romperlo.

Oggi questo piatto dal sapore unico è quasi perduto. La scarsissima popolazione dei paesini citati ne ha quasi perso la memoria e l'unico modo di assaggiarlo è convincere qualche ristoratore appassionato del suo territorio a passare alcune ore supplementari in cucina. Cosa non impossibile, per altro, se il ristoratore è Gian Luca Del Rio, Chef di La Rosa dei Venti di Sennariolo (Oristano), il quale porta avanti da anni, con tanta passione, una seria ricerca sui piatti più caratteristici del Montiferru.

Timballo - La Rosa dei Venti - foto di Orata Spensierata

Comunque tutti i migliori ristoratori sardi propongono piatti “moderni” con il riso, in versione di terra o di mare. Di recente – tanto per citare un esempio per tutti - Roberto Serra, giovane titolare e talentuosissimo Chef di Su Carduleu di Abbasanta (Oristano), ci ha proposto un risotto che ha lasciato a bocca aperta tutti i commensali: un abbinamento di muggine affumicato, limone e pecorino.

Risotto - Su Carduleu - foto di Orata Spensierata

Il riso Venere, che sull’isola è coltivato su una superficie di circa 240 ettari, è piuttosto utilizzato anche per il bel risultato estetico e la facilità di abbinamento con pesce, verdura e frutta. Il Venere sardo è piuttosto interessante. Va detto intanto che questo bel riso nero è il risultato di una serie di incroci (non si parla di OGM, ma di selezione pilotata dagli agronomi in cerca di un seme “perfetto”, che viene commercializzato da una società di Vercelli) tra un riso asiatico e un riso italiano. La sua colorazione così particolare deriva dalla massiccia presenza di antociani, che altro non sono che quei pigmenti presenti nei vegetali - nei fiori, per esempio – responsabili della colorazione rosso scuro o blu, che hanno un forte potere antiossidante. Proteggono cioè i vegetali stessi - e quindi chi li mangia – dagli effetti nocivi dei raggi ultravioletti.
Il riso Venere ha poi un elevato contenuto di sali minerali e vitamine. Nel corso degli anni è diventato evidente che alcune zone della Sardegna sono particolarmente indicate per coltivarlo; in particolare la provincia di Oristano, nella Valle del Tirso. Da un lato perché la zona è ricca di acqua e quindi si favorisce l’irrigazione naturale, dall’altro perché il microclima è l’ideale per migliorare il sapore di questa varietà, senza dimenticare che il sole e il particolare grado di umidità favoriscono una germinazione più abbondante dei semi.
Ora voglio proseguire questo viaggio nel mondo del riso sardo presentando l’esperienza concreta di un’azienda del settore: la Risoristano di San Vero Milis (Oristano). Il titolare Marcello Stara si è lasciato gentilmente intervistare e si è mostrato entusiasta di partecipare a questo mio piccolo lavoro, fornendomi molte informazioni e materiali utili.

L’azienda agricola esiste dal 1907, tanto da essere stata inserita nel registro delle Imprese Storiche d'Italia. Inizialmente produceva Vernaccia, cereali e agrumi, poi, dopo diverse prove e studi specifici sui terreni, l’azienda si è convertita alla produzione, lavorazione e confezionamento del riso.

Il primo riso coltivato al sorgere del XXI secolo è stato un Thaj aromatico selezionato in Italia dall'Ente Nazionale Risi; una varietà ottima da sola con un filo d’olio, oppure come contorno di piatti di pesce e carne. Il Thaj è proposto anche nella versione integrale. Poi c’è il Carnarolis: un classico per i risotti e i timballi.

I riconoscimenti al prodotto sono arrivati in fretta: dall’inserimento nell’elenco dei Prodotti tipici della provincia di Oristano, al “Premio cultura e qualità” della Confederazione Italiana Agricoltori, alla partecipazione come rappresentanti del settore risicolo sardo al Salone del Gusto di Torino.

Marcello è convinto (e io sono d’accordo con lui) che il salmastro che il maestrale adagia sulle spighe di riso abbia grande influenza sul sapore del prodotto, così come le qualità del terreno di origine vulcanica ai piedi del Montiferru. 


Risaie a San Vero Milis (Oristano) - foto di Marcello Stara

È affascinante seguire le fasi di lavorazione: i campi vengono lasciati riposare tutto l’inverno - piuttosto mite nel sud dell’isola – poi, verso aprile, si lavora il terreno per arieggiarlo ed eliminare eventuali pendenze, poiché di lì a breve verrà allagato. La semina viene effettuata meccanicamente, ma i controlli e l’estirpazione di erbacce e riso selvatico vengono fatti interamente a mano. Infine, tra ottobre e novembre, si raccoglie il riso maturo con una mietitrebbia del tutto simile a quella utilizzata per altri cereali. Il prodotto si lascia asciugare e, dopo un periodo di riposo, lo si passa attraverso rulli di pietra, utilizzando un procedimento meccanico semplice e antico.

Durante il lavoro di ricerca su coltivazione, ricette e aziende risicole ho pensato spesso al mio personale rapporto con il riso, che è migliorato quando ho cominciato a utilizzare esclusivamente riso sardo. Prima, pur essendo il riso un elemento fondante della cultura gastronomica del luogo da cui provengo ed essendo io perfettamente in grado di cucinare i più svariati risotti con un discreto successo, non ne ero entusiasta; insomma se potevo scegliere... lo evitavo. Mi domandavo quindi che rapporto avessero con il riso gli amici dell’Orata Spensierata. Detto fatto, li ho coinvolti in un piccolo sondaggio.

Se, come prevedibile, coloro che vivono nel resto d’Italia in genere non utilizzano riso di marche sarde, hanno tutti dichiarato di avere un ottimo rapporto con questo alimento. Tutti amano i risi tradizionali e i risotti, ma non esitano a sperimentare varietà di origine esotica (che, come abbiamo visto, tanto più esotiche non sono) in piatti che sono sia frutto di elaborazione personale, sia riproduzioni di ricette provate durante un viaggio o assaggiate in ristoranti etnici

Ognuno è affezionato a un piatto a base di riso della sua regione; dal Veneto alla Lombardia alla Sicilia hanno tutti un bel ricordo legato a una ricetta tramandata in famiglia da mamme e nonne.

Coloro che vivono in Sardegna hanno poi dichiarato di utilizzare quasi esclusivamente riso prodotto e confezionato sull’isola. Chi per affetto; chi per sostenere anche in questo modo l’economia locale; chi per scelta di gusto; chi, come me, per tutti questi fattori insieme.


Se siete arrivati a leggere fin qui (grazie!) probabilmente sarete affamati. Mi permetto quindi, per chiudere questo viaggio, di segnalarvi alcune mie ricette, nelle quali interpreto il riso sardo in diverse maniere.





 

Pagelli con patate e cipolle di Tropea al Moscato



Ma quanto sono belli questi pagelli! Rosa e argento, con quell’occhione giallo tipico della varietà “fragolino”. Le carni sono molto delicate e, quando sono veramente appena pescati, cucinarli è facilissimo.



Per due persone:

2 pagelli da 350/400 g ciascuno
2 cipolle di Tropea
4 patate di medie dimensioni
1 bicchiere di Moscato di Sardegna
olio extravergine di oliva
sale, pepe bianco
alcune foglie fresche di maggiorana

La cena si prepara praticamente da sola; basta rispettare i tempi di cottura del pesce. Ho voluto cuocere i tre elementi del piatto separatamente poiché ognuno doveva mantenere la sua specificità e avere una consistenza diversa grazie alla diversa cottura. Il tutto non richiede comunque più di una quarantina di minuti tra preparazione ed esecuzione.

Accendere il forno e portarlo a 200°.

Squamare il pesce, pulirlo, sciacquarlo e asciugarlo.

Mondare le cipolle e affettarle finemente; sbucciare le patate e affettarle con una mandolina. Farle cadere in una ciotola piena d’acqua.

Adagiare i pesci in una pirofila da forno, aggiungere un filo d’olio, un pizzichino di sale e qualche foglia di maggiorana spezzettata. Infornare, abbassare leggermente la temperatura del forno e cuocere per dieci minuti; quindi girare i pesci e cuocere altri 10 minuti. Non di più.

Nel frattempo togliere le patate dall’acqua, sciacquarle e asciugarle. Scaldare abbondante olio in una padella larga e dal fondo pesante, quindi gettarvi le patate e cuocerle facendole saltare spesso. Alla fine dovranno essere ben croccanti. Salare leggerissimamente solo alla fine.

In una padella più piccola mettere una lacrima d’olio e, quando è caldo, aggiungere le cipolle. Mescolare, farle appassire, quindi unire il Moscato, chiudere con un coperchio e far cuocere su fuoco molto dolce mescolando di tanto in tanto. Dovranno risultare morbidissime, leggermente caramellate e mantenere il loro colore vivace.



In un piatto da portata (o in qualsiasi altro contenitore adatto: io ho usato una pirofila di ceramica gialla che mi piace molto e che stava benissimo con il colore dei pesci...) disporre prima le patate, quindi adagiare i pesci e infine ricoprire con le cipolle. Completare con un po’ di pepe bianco macinato al momento.

Servire immediatamente. 



Crema di verdure. Ma anche frutta.

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Flavio, il mio ortolano di fiducia, l’altro giorno mi ha esortato a riempire la borsa della spesa con quelli che molto probabilmente - visto il tempo ormai decisamente autunnale – saranno gli ultimi cetrioli e pomodori perini di campo disponibili per questa stagione.

Non me lo sono fatta ripetere due volte e ho fatto bene. Una volta a casa, quando ho rovesciato le borse sul tavolo con il ripiano bianco, i pomodori rosso scuro si sono mischiati con le piccole e screziate mele Miali (una varietà tipica sarda); i cetrioli hanno fatto da contrappunto con il loro verde scuro e intenso; il sedano ha invaso il campo con un ciuffo verdissimo e vaporoso di foglie; le cipolle son rotolate in disparte con il loro colore discreto ed elegante.

Mi sono detta che era proprio una bella idea cucinare tutto insieme. Sono uscita sul terrazzo a prendere un po’ di erbe fresche e ho cominciato.

Per due persone:

2 cetrioli di dimensioni medie
4 pomodori perini maturi
4 mele Miali (o altre piccole mele dal sapore non troppo dolce)
1 piccola patata
1 costa di sedano verde
¼ di cipolla bionda
1 l circa di brodo vegetale (o anche semplice acqua)
olio extravergine di oliva e burro
sale

erba cipollina e basilico freschi.



Mondare i cetrioli, eliminando le estremità e i semi, senza togliere la buccia. Pulire i pomodori, eliminando bene i semi, quindi ridurre entrambi a dadini.

Sbucciare la patata a tagliarla a dadini; mondare la cipolla e il sedano e farli a fettine.

Pulire le meline eliminando i semi e il torsolo ma lasciando la buccia, quindi tagliarle a pezzetti.

Scaldare il brodo, che va mantenuto bollente per tutto il tempo (forse non ne servirà un intero litro, ma meglio averlo a portata di mano).

In una pentola per minestre scaldare uno o due cucchiai d’olio con un pezzetto di burro, unire il sedano e la cipolla e mescolare per qualche minuto. Unire anche la patata e mescolare.

Unire pomodori, cetrioli e anche le mele. Ricoprire di brodo e portare  a cottura (non più di 15/20 minuti). Se serve, aggiungere altro brodo.

Pulire erba cipollina e basilico e tagliuzzare tutto insieme.



Allontanare la minestra dal fuoco, passarla con il frullino a immersione e ottenere una crema più o meno liscia secondo i gusti; unire le erbe fresche, assaggiare e aggiustare di sale.
  
Mescolare e portare in tavola. 


Crema di broccoletti e pere



Ricetta non nuova, ma che ripropongo periodicamente quando trovo le pere giuste. Non che sia vincolante la varietà; più che altro devono essere delle pere “buone”, con un sapore di frutta ben definito (maturate sull’albero, per capirci), ma non troppo dolci.

Per due persone:

350 g circa di broccoletti freschissimi (gambo e foglioline comprese)
150 g circa di pere mature
1 patata media
½ cipolla bionda (piccola)
1 l circa di brodo vegetale
1 cucchiaio di yogurt intero naturale
olio extravergine di oliva
sale

un cucchiaino di olio di zucca*



Mondare i broccoletti senza escludere né gambi, né foglie più tenere; dividerli in cimette e fare a pezzetti i gambi.
Eliminare il torsolo della pera senza sbucciarla. Poi farla a pezzetti conservandone (se piace) una fettina o due per la decorazione del piatto.
Sbucciare la patata e ridurla a dadini.
Affettare sottilmente la cipolla.
Riscaldare il brodo.

In una pentola per minestre scaldare l’olio, unire la cipolla e farla leggermente appassire, quindi unire frutta e verdure tutte insieme.

Mescolare bene per alcuni minuti e, quando tutto sarà ben caldo, coprire di brodo.  Appena avrà preso bollore, abbassare il fuoco e chiudere la pentola.



Cuocere per circa 15, massimo 20 minuti aggiungendo, se occorre, altro brodo (probabilmente non ne servirà un intero litro, ma meglio averlo a disposizione, che rischiare di far addensare troppo la minestra).

Allontanare la pentola dal fuoco, unire un cucchiaio di yogurt, aggiustare di sale e poi passare con un frullatore a immersione.

Servire decorando il piatto a piacere e completare con un cucchiaino di olio a crudo (un extravergine di oliva va benissimo, se non si ha a disposizione quello di zucca).






Stufato di capra alla Malvasia



La capra, animale bizzarro e invadente (date un po’ di confidenza a una capra e la sua innata curiosità non risparmierà né i vostri abiti, né il vostro zaino, né la macchina fotografica, né, ovviamente, il vostro pranzo al sacco...) non a tutti è simpatica e non a tutti piace. Cucinata, intendo. La carne di capra invece è sana: è poco grassa, ha molte proteine e, se cotta a puntino, è anche ben digeribile.
In alcune zone è considerata una prelibatezza, in altre un ripiego per tempi di ristrettezze; in alcuni luoghi si cucina solo il capretto e mai l’esemplare adulto, in altre l’adulto (la femmina, quasi sempre) è utilizzato in cucina per ottimi stufati. In ogni caso ogni regione italiana ha la sua ricetta, il suo salume e la sua tradizione.  

In Sardegna se si pensa capra si pensa principalmente Ogliastra (zona est dell’isola), dove sono censiti più o meno quattrocento allevamenti, ma in effetti le capre dividono spesso con le pecore i pascoli più impervi di tutta l’isola e si nutrono con piacere di macchia mediterranea e di molta vegetazione che per gli altri animali risulta indigesta.

Sto divagando... il punto è che, di recente, mi sono trovata a essere il fortunato oggetto di un regalo insolito: una mezza capra. E ho dovuto pensare a come porzionarla e consumarla. Ho iniziato con uno stufato, che ora vi illustro.

1,5 kg di polpa di capra
sedano, carota e cipolla bionda
una manciata di pomodorini freschi tipo ciliegino o datterino
una manciata di pomodori secchi
400 g di pomodori a pezzetti in scatola di ottima qualità
1 bicchiere di Malvasia
olio extravergine di oliva
foglie di mirto fresco a piacere 
sale e pepe



Mondare bene la polpa di capra eliminando nervi e scarti, quindi tagliarla a bocconcini.

Pulire sedano, carota e cipolla e tritarli grossolanamente. Tritare anche i pomodori secchi e fare a pezzetti i pomodori freschi.

In una casseruola capiente e dotata di un coperchio che chiuda ermeticamente, versare abbondante olio e scaldarlo. Quindi aggiungere il trito di sedano carote e cipolle e farlo appassire mescolando. Raccoglierlo poi con una piccola schiumarola, lasciando il più possibile di olio sul fondo, e tenerlo da parte.

In quello stesso olio gettare la carne e farla rosolare bene da ogni lato. Quando sarà leggermente e uniformemente colorita abbassare la fiamma al minimo, quindi ricoprirla con il trito di verdure, i pomodori freschi e i pomodori conservati e, infine, bagnare il tutto con la Malvasia. Non mescolare, ma scuotere solo leggermente la casseruola.

Chiudere bene con il coperchio e lasciar cuocere senza mai né mescolare né scuotere per 30 minuti.

Scoperchiare, mescolare, aggiustare di sale e pepe e aggiungere il mirto. Mescolare nuovamente. Cuocere non più di altri 10 minuti, quindi servire fumante.