Involtini di riso, nocciole, caprino e... verza medesima



Involtini di verza: mai, mai, mai fatti. Nemmeno quelli alla milanese che pure mia nonna portava in tavola con una certa frequenza. Poi è venuto il Calendario del cibo italiano di AIFB (Associazione Italiana Food Blogger) e ha proposto il 4 gennaio come “Giornata nazionale degli involtini di verza” e ho dovuto prendere coscienza che c’è un mondo... che si può involtolare in una foglia di verza! A parte gli scherzi, la cosa è nata piuttosto per caso: meditavo da giorni sul perché non li avessi mai cucinati e, a un certo punto, le mani si sono mosse più veloci della mente e hanno prodotto questa versione degli involtini di verza. Con il burro come a Milano, ma con il riso sardo, con il formaggio di capra e con le nocciole che mi hanno regalato le care amiche di Tiana (Nuoro)



Per 10 involtini (due a persona possono bastare)

1 bicchiere (circa 200 grammi) di riso sardo tipo Carnaroli
150 g di formaggio caprino semistagionato
60 g di burro
10 foglie grandi di verza più alcuni ritagli o foglie spezzate
1 manciata di nocciole non tostate
1 spicchio d’aglio
sale
aceto bianco di vino

Portare a bollore circa 2 bicchieri di acqua con circa 30 grammi di burro e qualche chicco di sale grosso. Gettarvi il riso e farlo cuocere a fuoco dolce per circa 15 minuti. Dovrebbe consumarsi tutta l’acqua (tenetelo d’occhio) ed essere solo leggermente al dente. Lasciarlo raffreddare allargandolo su un piatto.



In una casseruola larga far sobbollire dell’acqua leggermente acidulata con l’aceto e immergervi le foglie di verza, mondate e lavate, per alcuni minuti. Devono essere al dente. Stenderle su un canovaccio e lasciarle raffreddare.

Stufare nella medesima casseruola i ritagli di verza con uno spicchio d’aglio schiacciato e pochissimo burro, aggiungendo acqua solo se serve. Salare leggermente. Lasciar raffreddare.

Tagliare il formaggio di capra a dadini minuti, tritare le nocciole non tostate con la mezzaluna. Unire il tutto alla verza stufata, mescolare e aggiungere anche il riso. Se occorre salare.

Sistemare un cucchiaio abbondante di composto su ogni foglia di verza e arrotolare, impacchettando bene per evitare che il ripieno fuoriesca e, se occorre, chiudere ancor meglio utilizzando uno stuzzicadenti.



Sistemare gli involtini stretti stretti nella medesima casseruola già utilizzata, cospargerli con fiocchetti di burro, aggiungere pochissima acqua e lasciarli cuocere sul fornello più piccolo e a fiamma dolcissima per circa 10 minuti.

Servirli immediatamente. 




Un concorso e un convegno per l'olio del Nord Sardegna

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Martedì mattina ho partecipato alla conferenza stampa di presentazione di un convegno dal titolo Lotta alla contraffazione alimentare e promozione dell’olio extravergine sardo, che si terrà a Sassari il 29 gennaio 2016. I temi del convegno saranno, come ben esplicitato nel titolo, la frode alimentare, la contraffazione dei prodotti made in Italy e le strategie per combatterle. Il convegno è organizzato da Coldiretti Sassari e Gallura con l’Amministrazione comunale e la Camera di Commercio di Sassari.

Particolare accento sarà posto sull’olio extravergine di oliva – prodotto importantissimo per l’economia agricola italiana – anche perché la seconda parte dell’incontro sarà dedicata alla premiazione dei migliori oli extravergini partecipanti al primo Concorso Città di Sassari.


Un concorso che vede in gara produttori di olio sia professionisti (aziende agricole e oleifici) sia amatoriali, che saranno numerosi, visto che i campioni da analizzare sono già un centinaio e che mancano ancora alcuni giorni alla scadenza per la consegna.

D’altra parte il Nord Sardegna vanta qualcosa come 1600 ettari di superficie olivetata e 1200 produttori per 22 frantoi (dati Coldiretti). Numeri di grande rilievo se si conta che la popolazione totale è di meno di 500mila persone (dati Istat). L’annata inoltre si presenta particolarmente positiva, sia dal punto di vista qualitativo, sia quantitativo: si stima – la raccolta non è completamente terminata – che in Sardegna si produrranno 60mila quintali di olio; non tutto extravergine chiaramente, ma comunque tutto di alta qualità perché le olive sono state abbondanti e sane.

Ciò che ho potuto ammirare io in questi mesi è stato, in effetti, uno spettacolo di ulivi stracarichi di frutti come non ne vedevo da anni e ciò che ho potuto assaggiare beh, è un prodotto davvero straordinario. Come si diceva martedì durante l’incontro con il sindaco di Sassari Sanna e il presidente Coldiretti Sassari e Gallura Cualbu, l’economia locale legata all’ulivo e all’olio registra dati positivi. 

Tutti amiamo cucinare con il nostro “olio buono”, amiamo sentirne a crudo il sapore potente e avvolgente che ricorda il carciofo e le erbe mediterranee e tutti, chi più chi meno, ci assicuriamo annualmente una quantità di olio cospicua, se si pensa che in media ogni sardo consuma qualcosa come 15 litri l’anno, contro i 12 del resto della popolazione italiana. 

Ma ciò che conta, forse persino più dell’economia fatta di numeri, è il valore ambientale e sociale racchiuso nell’ulivo e nella produzione dell’olio. Se si desidera raccogliere olive sane e avere ottimo olio è necessario curare i propri alberi, mantenendo così in buona salute l’ambiente e vigilando implicitamente sul territorio. Prevendendone l’erosione, per esempio. 

Se si desidera raccogliere le olive in modo veloce e corretto si ha bisogno di una mano e quindi chi lo fa per fini commerciali assume personale; chi lo fa in maniera amatoriale chiama a raccolta famiglia e amici, innescando così un processo virtuoso di coesione sociale.

Inoltre non si deve sottovalutare il valore paesaggistico degli uliveti: cosa sarebbe la Sardegna senza il verdegrigio degli ulivi a punteggiare le colline? Verdegrigio comune a tutte le varietà: Bosana, Tonda sassarese, Tonda di Cagliari, Tonda di Villacidro, Nera di Villacidro, Nera di Oliena, Semidana, Cariasina, Pizz’e carroga, Sivigliana... e altre locali (a questo indirizzo si può scaricare un opuscolo di una quarantina di pagine proposto dalla Regione Sardegna con tutti i segreti dell’Extravergine Sardo Dop e con bellissime immagini).

In attesa di sapere quali saranno gli oli premiati il 29 gennaio alla conclusione del primo Concorso città di Sassari, io utilizzo il magnifico nettare gialloverde della stagione 2015 sia crudo, sia come complemento indispensabile a ogni piatto che esce dalla mia cucina. 

Senza eccedere, ma apprezzandone le differenze: quest’anno, infatti, ho a disposizione ben tre oli diversi. Uno proviene da un uliveto privato che dà una resa davvero piccola ma ottima, che ho scambiato ben volentieri con le mie marmellate. L’altro da uliveti di una piccolissima azienda agricola a conduzione familiare, che è semplicemente spettacolare e che mi è stato consegnato in tanichette da 5 litri e caricato in macchina dopo una breve trattativa che ha comportato anche due bicchieri di “una Vernaccina speciale” e qualche fetta di salsiccia. Il terzo da un’azienda agricola più grande e più organizzata che imbottiglia il proprio prodotto con etichetta a norma di legge. Norme che vanno sempre rispettate, non mi stancherò mai di ripeterlo, ma che devono viaggiare su binari paralleli rispetto a una fiducia personale che non dovrebbe mai venir meno. 


Non è insolito che l’approvvigionamento di olio in famiglia avvenga tramite scambi: due barattoli di marmellata per un litro; un formaggio ottimo per due litri, una cassa di arance per ... e così via. 
--> È questo il bello di vivere in una regione dove – sebbene, ovviamente, ci siano delle eccezioni e anche episodi di illegalità – il valore del cibo e la sua condivisione sono ancora tenuti in grandissima considerazione.



Per la giornata nazionale della pasta e fagioli: una interpretazione giusto nel mezzo



Amici cari,
 il 1 gennaio 2016 ha preso il via un'iniziativa unica nel suo genere e davvero interessante per chi - come voi e me - ama il cibo (vero) e la cucina italiana.
Si tratta del Calendario del cibo italiano ideato, promosso e minuziosamente compilato dall'AIFB (Associazione Italiana Food Blogger), di cui faccio parte.
Ogni giorno, per tutti i 366 di questo 2016, potrete andare sul sito di AIFB e imparare, scoprire notizie e storie, copiare ricette relative a un ingrediente o a un piatto tradizionale italiano e – cosa sempre piacevole – vedere belle foto di cibo. Si va dai ceci alla cima genovese, dal panettone ai pizzoccheri, dalle lenticchie al risotto alla milanese, dal brasato alle sarde, dai tortellini in brodo al torrone...
Ogni giorno un socio o una socia veste i panni dell’Ambasciatore e studia, scrive, cucina e raccoglie i contributi degli altri soci per dare un panorama il più possibile completo di come un ingrediente o un piatto italiano si possa distinguere e interpretare.
Ogni giorno è una “Giornata nazionale di...” e oggi, 16 gennaio, è la giornata nazionale della pasta e fagioli.
Ambasciatrice di oggi è Sabrina Tocchio del blog natosottoilcavolo, che oggi, 


ci illustra tutto ciò che c'è da sapere su questo delizioso piatto della tradizione italiana.
Io, nel mio piccolo e secondo le mie capacità, voglio dare oggi per la prima volta il mio contributo a questo progetto impegnativo, di ampio respiro e davvero entusiasmante.

Ecco la mia  
Giornata nazionale della pasta e fagioli:
una interpretazione giusto nel mezzo



Poiché i fagioli sono coltivati più o meno in ogni orto d’Italia e la pasta – in tutte le sue infinite forme – è amata da nord a sud, va da sé che la pasta-e-fagioli sia diffusa ovunque nella penisola. Uno dei suoi punti di forza è che si può preparare in tutte le stagioni: d’estate si fa con i fagioli freschi, d’inverno con quelli secchi.

Secondo le più autorevoli pubblicazioni di cucina tradizionale il grande clan della pasta e fagioli italiana comprende diverse famiglie. Al nord prevalgono i fagioli borlotti e l’uso di insaporirla con lardo o pancetta e non si usa il pomodoro, se non poco e solo d’estate. Al centro, in particolare in Toscana, i fagioli sono rigorosamente cannellini e si usano rosmarino, salvia e anche altre erbe fresche. Al sud vanno per la maggiore i pomodori secchi e l’aglio e, ovviamente, si abbonda con l’olio d’oliva.

Anche la pasta cambia da nord a sud: se in Veneto, Lombardia ed Emilia si usa anche quella all’uovo, dalla Toscana in giù la pasta è rigorosamente solo di semola, acqua e sale. A Napoli poi tradizione vuole che si usi la pasta orfana, la “spezzata”, ovvero un po’ di ogni formato rimasto in dispensa in una quantità troppo esigua per essere usato per una pastasciutta.

Io sono milanese, ma vivo da molti anni in una regione che, geograficamente parlando, sta tra centro e sud... oltre che in mezzo al mare, certo! Quindi mia nonna faceva la pasta e fagioli con il lardo, i borlotti grandi, senza ombra di pomodoro e, in quanto a pasta, prediligeva i maltagliati all’uovo. Io invece uso il lardo, ma anche i pomodori secchi e l’aglio e la pasta la voglio di grano duro. E i fagioli? Rigorosamente solo sardi: sono ottimi e sono bellissimi e mi piace variare. Se desiderate saperne qualcosa di più potete andare a vedere questo post precedente.

Per quattro persone.
Per la pasta:
300 g di semola di grano duro varietà Senatore Cappelli
2 cucchiai d’olio
1 pizzicone di sale
acqua qb

Per la minestra:
2,5 l di brodo di verdure fatto con sedano, carota, cipolla, pomodoro secco e uno stelo di prezzemolo
250 g di fagioli secchi scelti tra le varietà sarde
100 g di lardo possibilmente fatto in casa e non salato
5 pomodori secchi sotto sale
1 patata grande
4 spicchi d’aglio
prezzemolo fresco
olio extravergine di oliva (facoltativo)
rosmarino fresco

Avvertenze: la quantità di semola indicata per la pasta è decisamente abbondante, ma, come chi è abituato a fare la pasta in casa sa benissimo, lavorare a mano quantità esigue di farina o semola è davvero faticoso e si rischia che il gioco non valga la candela... meglio quindi fare un po’ di pasta in più, che si potrà cucinare il giorno dopo. 

Lo stesso vale per il brodo: meglio farne un po’ di più e tenerlo a portata di mano, che trovarsi a dover usare al volo della semplice acqua bollente; se avanza si può conservare in barattolo, anche in freezer. 

Per quanto riguarda i fagioli, io ho deciso di utilizzare contemporaneamente ben tre diverse varietà. Ci sono dei fagioli rossi di dimensioni medie e dei piccolissimi fagioli bianchi che ho acquistato da un simpatico produttore di Pauli Arbarei (piccolo comune della Marmilla, zona del Campidano in provincia di Villacidro-Sanluri). A questi ho aggiunto dei fagioli bianchi con l’occhio che si chiamano cara ‘e monza (viso di monaca) e sono tipici dell’oristanese.


Per prima cosa preparare la pasta. Si può fare anche il giorno prima. Su una spianatoia di legno setacciare la semola e disporla a fontana, quindi versare nell’incavo il sale e l’olio; unire poi un po’ di acqua tiepida e cominciare ad amalgamare con una forchetta. Aggiungere altra acqua e lavorare con le mani impastando con energia fino a che non si ottiene una massa liscia ed elastica. Conservarla per almeno un’ora sulla spianatoia stessa, avvolta in un panno e sotto una ciotola capovolta. 

Riprendere la massa, dividerla in più parti (quella che non si lavora al momento va conservata coperta) e ricavarne degli spaghettoni spessi. Dividerli in tocchetti di circa 3 centimetri e quindi lavorare ognuno con il ferretto (un ferro da calza sottile o un uncinetto vanno benissimo, così come uno spiedo a sezione tonda) ricavando così dei piccoli maccarrones. Far asciugare su un canovaccio pulito e leggermente cosparso di semola.



Altra cosa da fare in anticipo è il brodo di verdure. Mettere le verdure mondate e tagliate in grossi pezzi in almeno tre litri di acqua e far sobbollire per circa un’ora a pentola semicoperta. Non salare, eliminare le verdure (che si possono passare e utilizzare per un’altra minestra) e tenere da parte.



Mettere in ammollo i fagioli in acqua tiepida. Per le piccole varietà sarde che ho utilizzato io bastano quattro ore, ma ovviamente per fagioli più coriacei i tempi sono più lunghi.

Fare il trito di lardo, aglio sbucciato e pomodori secchi ben sciacquati utilizzando la mezzaluna o un coltello pesante, non un apparecchio elettrico.

Scaldare una pentola per minestre (una di coccio è l’ideale), gettarvi il trito e mescolare per alcuni minuti per far sciogliere il lardo a fuoco vivace.

Aggiungere i fagioli scolati dall’acqua di ammollo e sciacquati e un rametto di rosmarino, possibilmente appena colto. Mescolare ancora per qualche minuto, poi aggiungere il brodo bollente ed eliminare il rosmarino.

Cuocere a fuoco molto dolce a pentola coperta per circa un’ora e mezza mescolando di tanto in tanto e controllando il livello del brodo e il grado di cottura dei fagioli che, a questo punto, dovranno essere teneri, ma non sfatti. Prelevare uno o due mestoli di minestra e frullarli, quindi riversarli nella pentola.

Nel frattempo sbucciare e tagliare la patata in pezzi di misura media e aggiungerli alla minestra. Cuocere altri 15 minuti circa, sempre a pentola coperta.

Aggiungere un paio di mestoli di brodo bollente e unire anche la pasta nella quantità desiderata. Cuocere - a questo punto a pentola scoperta – per 10 minuti o finché la pasta non sarà cotta (il tempo varia a seconda dello spessore e della dimensione dei maccarrones).




Allontanare la minestra dal fuoco. Aggiungere prezzemolo fresco appena tritato con la mezzaluna e portare in tavola. Se piace aggiungere un filo di olio crudo.


Zichi, fresa e pistoccu: pani da minestra



Tra i tanti, meravigliosi, prodotti tradizionali sardi c’è un nutrito gruppo di pani secchi, duri, consistenti e croccanti che si possono utilizzare come “pani da minestra”. Questo perché sono adatti a essere cotti nel brodo (o anche in semplice acqua) come fossero pasta e perché sono spesso l’ingrediente principale di piatti antichi, le cui ricette si custodiscono in ogni famiglia.

Gli ingredienti sono quelli più semplici: semola di grano duro, acqua, sale e lievito madre. Si può usare anche il lievito di birra, ma la qualità non è la stessa. Il mio consiglio è di controllare sempre la lista degli ingredienti (obbligatoria) sulle confezioni se lo si compera in negozio, o di chiedere direttamente se lo si acquista durante una festa o una sagra.

Una panoramica (necessariamente incompleta) va da nord a sud dell’isola e incontra moltissimi paesi dove si producono – in casa o in piccoli laboratori artigianali – ottimi pane zichi, pane fresa, pane pistoccu. Sono tutti diversi e, malgrado siano ormai alcuni anni che mi ci dedico con goloso impegno, so perfettamente di non averli ancora scoperti tutti.





Per prossimità geografica parto da nord: da Bonorva in provincia di Sassari dove si produce lo zichi di Bonorva, uno dei più famosi pani di questo genere.

La sfoglia che diventerà pane zichi si tira con un matterello partendo da panetti di pasta (grano duro, acqua, sale, lievito madre) che pesano anche mezzo chilo. Si ottengono via via forme tondeggianti del diametro di 40, 50 centimetri spesse circa mezzo centimetro, quindi si procede a faghere in poddighe, ovvero a "massaggiare" la sfoglia con i polpastrelli. Poi la si taglia e decora con rotelle dentate. Infine si lascia lievitare e si cuoce – potendo – in un forno a legna. 

Quando viene estratto il pane è morbido e si può gustare come qualsiasi altro pane, poi, una volta secco, si utilizza come ingrediente di alcune ricette tradizionali. Una è il pane uddidu, ovvero il pane zichi cotto in brodo di pecora e condito con un trito di lardo e prezzemolo; l'altra è il pane a fittas. In questo caso il pane zichi viene usato come se fosse pasta: si cuoce in brodo di carne (o in semplice acqua) e poi si condisce con un ghisadu (sugo di carne) e abbondante pecorino. 

Prendendo spunto da queste ricette di base si possono creare infinite varianti: il pane zichi (sempre cotto nel brodo, che può essere anche di verdure) è ottimo con i carciofi, con i funghi, con la bottarga, con le melanzane e i pomodori... Con tutto, insomma.

Per il centro Sardegna citerò la bellissima Gavoi (Nuoro) e il suo pane fresa.

Gavoi è un paese di montagna con un centro storico fatto di case di pietra ben tenute, di caminetti accesi (a volte anche d'estate), di chiesette raccolte e pulite. Nei dintorni ci sono il lago, le campagne e i boschi… Insomma un luogo davvero speciale dove i prodotti tradizionali sono ottimi e tenuti in grande considerazione. Il pane fresa di Gavoi è croccante, ma più sottile del pane zichi. Gli ingredienti sono sempre semola di grano duro, acqua, pasta madre e sale e la cottura è rigorosamente in forno a legna, il che gli conferisce il caratteristico aroma.

Le sfoglie di pasta di pane vengono stese con molta pazienza in strisce regolari e lunghe, poiché, appena uscite dal forno, devono essere ripiegate come a formare le pagine di un libro. Questa forma particolare nasce dalla necessità: un tempo pastori e contadini conservavano questo pane in bisacce rettangolari per avere una scorta di cibo quando il loro duro lavoro li tratteneva a lungo fuori casa.
Oggi il pane fresa non va più in campagna, ma si usa come ingrediente tradizionale dello splendido erbuzzu, una minestra preparata con sedici erbe spontanee. Ma non solo: va bene anche con la zuppa di cipolle, con il brodetto di pesce, con il formaggio fuso; è ottimo con la marmellata, con la crema di olive...

Il pane pistoccu è invece più tipico della parte centro-sud-sud dell'isola (ma si trova anche al nord, beninteso) e può essere prodotto o con la sola semola di grano duro, o con una miscela di grano duro e tenero, più acqua, sale e lievito. Si trova anche prodotto con semola integrale.

L'impasto viene steso in lunghe strisce e, affinché la forma rimanga regolare, durante la lievitazione viene messo in stampi di legno. La cottura dovrebbe avvenire in forno a legna. Quando il pane è cotto viene estratto dal forno, aperto, privato della mollica e rimesso in forno per una seconda cottura. Il risultato è un pane consistente e ruvido, che può essere consumato così, come accompagnamento alla ricotta, alla crema di formaggio, alla marmellata della colazione; oppure cotto nel brodo di carne e condito a piacimento.

Sia il pane zichi, sia il pane pistoccu rientrano nella categoria "Prodotto tradizionale della Sardegna", ovvero sono tra "quei prodotti agroalimentari le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultino consolidate nel tempo, omogenee per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni"



Come dicevo all’inizio le varianti sono tante, tantissime. Non solo quelle tradizionali e tipiche di ogni paese, ma anche quelle moderne e innovative. Ho assaggiato un ruvidissimo pistoccu ai cereali misti; un pistoccu “soffiato”, ovvero sottilissimo e spennellato con acqua perché esca liscio e leggero dal forno, che si produce ad Armungia. A Paulilatino trovo un pistoccu gonfio e vuoto, liscio e croccantissimo che adoro mangiare a colazione con il caffelatte. Insomma, raramente torno da una gita senza la scorta di pane e ogni volta mi trovo tra le mani un piccolo tesoro che sono contentissima di aver scoperto. 

Qui potete trovare un paio di mie personalissime ricette con fresa e pistoccu:

- Minestra di erbe spontanee e pane pistoccu

- Quando la montagna incontra il mare: pane fresa in zuppa di pesce



Cioccolata e salsedine



La cioccolata. Quando posso vado in una pasticceria qui vicino, che si affaccia sul mare. Le vetrate in inverno sono inesorabilmente opache di salsedine e, se ci si siede al tavolino nella saletta al piano superiore, si vede da un lato il traghetto della sera, dall’altro la bellissima torre aragonese che domina il porto. La cioccolata è deliziosa, dolce al punto giusto; la piccola pasticceria che l’accompagna è di ottimo livello; la panna che la completa è abbondante e irresistibile. Insomma, se si sanno apprezzare le piccole cose, una sosta qui può essere molto piacevole (e questo valga per la vita in generale).

Ma, visto che sono molto golosa, la cioccolata la preparo spesso anche a casa. Ho i miei trucchi e le mie proporzioni perché sia morbida, non tanto dolce, avvolgente, vellutata e densa. Per comodità mescolo in anticipo gli ingredienti per aver pronto un “preparato” da stemperare nel latte intero e far addensare su fuoco molto dolce. Lo conservo in un barattolo a chiusura ermetica. Di ricette e consigli per preparare una buona cioccolata in tazza è pieno il web. Da scoppiare. Ma io, sempre per comodità, in genere vado a occhio e non peso mai ciò che aggiungo...



Questa volta però si trattava di preparare un regalo per degli amici, giusto per non presentarsi con la solita bottiglia di vino! E quindi, una volta tanto, ho pesato e dosato. Poi, ovviamente, ho assaggiato (più volte) per controllare di aver azzeccato la ricetta!

Per una tazza utilizzare:
2 cucchiai di preparato e 200 ml di latte

120 g di cioccolato fondente 50-60% grattugiato (o, in alternativa, ugual peso di gocce di cioccolato*)
100 g di zucchero di canna
80 g di cacao amaro di qualità (io uso sempre quello di Altromercato)
60 g di amido di mais
1 pizzico di sale

Versare la quantità desiderata di preparato direttamente in un pentolino dal fondo spesso, stemperare dapprima con pochissimo latte, poi, una volta ottenuta una crema, aggiungere il resto. Sistemare il pentolino sul fornello più piccolo e far addensare il composto mescolando continuamente. Versare fumante nelle tazze. A piacere servire con panna montata o un po’ di cannella in polvere (o entrambe).


* che vanno scelte, però, di ottima qualità! Non ha davvero senso risparmiare quando ci si concede un piccolo piacere come questo...

 

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Mentre facevo qualche piccola ricerca sulla cioccolata in tazza per scrivere questo post mi è capitato di imbattermi in questo bellissimo articolo di Senzadedica che parla de "La bella cioccolataia" di Jean-Etienne Liotard. Da leggere!