Per il Gran Tour della Sardegna oggi si parla di dolci bianchi: quelli tradizionali per il matrimonio



Dolci per il matrimonio tradizionale sardo - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Un articolo speciale quello di oggi per il Gran Tour della Sardegna di Aifb. Vi parlo dei dolci tradizionali sardi legati al matrimonio. 

Vere opere d'arte, espressione delicata e golosissima del lavoro delle mani abilissime e infaticabili delle "maestre dei dolci". Da Nuoro a Quartu Sant'Elena, passando per Paulilatino e Carloforte, i dolci per le occasioni liete si mangiano anche con gli occhi. 

Un grazie all'amica Claudia Casu, che mi ha dato una mano mettendomi in contatto con le più conosciute maestre che ringrazio nell'ultimo paragrafo del testo. 

Leggete

**********************************************

Ecco l'articolo:

Gran Tour d’Italia, la Sardegna. I dolci per il matrimonio in Sardegna
Dolci per il matrimonio tradizionale sardo - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Gran Tour d’Italia, la Sardegna. I dolci per il matrimonio in Sardegna

Far funzionare un matrimonio è compito degli sposi, ma preparare i dolci per il banchetto di nozze qui in Sardegna è compito delle mamme, delle suocere, della famiglia e della comunità tutta, che festeggia la nuova unione con dolci di miele e di mandorle, decorati spesso come finissimi pizzi. Per il Gran Tour andiamo a scoprire alcune di queste vere e proprie opere d’arte commestibili, caratterizzate dal colore bianco, che evoca purezza, e da forme codificate, che simboleggiano abbondanza e prosperità.

I dolci per le cerimonie e la comunità: una tradizione viva e molto amata

Nelle zone centrali della Sardegna agli sposi si augura comment’est durche su mele, siat durche s’amore, ovvero che il loro amore sia dolce come è dolce il miele. All’impegno degli sposi si aggiunge quello della famiglia – intesa nel senso più esteso possibile – perché preparare i dolci per la cerimonia, trasformando mandorle e miele in vere opere d’arte, è una cosa che richiede tempo e dedizione. Il matrimonio, unione materiale e spirituale di due persone, è da sempre un importante momento di passaggio; così come la nascita dei figli o un lutto. Questi momenti sono sempre celebrati con un cibo speciale, spesso dolce, preparato dalla comunità, che in questo modo saluta una nuova famiglia, un nuovo nato, oppure si accomiata per sempre da un proprio membro.

dolci decorati per le cerimonie Sardegna
Dolci decorati per le cerimonie – per gentile concessione di Claudia Casu

In Sardegna la preparazione di dolci speciali per il matrimonio – elaborati e bellissimi oltre che buonissimi – è una tradizione ancora viva e molto amata. Alcuni sono dolci semplici, come gli amaretti, altri sono druccis finis e sono preparati dalle future suocere, dalle madrine, oppure, in mancanza di queste, delle “maestre”: donne esperte, vere e proprie artiste che dedicano gran parte della loro vita a questa attività nell’ambito della propria comunità.
Gli amaretti sono diffusi in tutti i paesi della Sardegna. Apparentemente semplici, in realtà non è facile bilanciare perfettamente zucchero e miele, mandorle dolci e amare, e bianco d’uovo per avere un dolce leggero, morbido e non stucchevole. Vengono preparati in grandi quantità e offerti a tutti nei giorni prima, durante e dopo il matrimonio. Anche le bianchissime meringhe, dette bianchini, nuvolette impalpabili di albume e zucchero, non mancano mai e, a volte, sono decorate con fiori di glassa reale e confettini d’argento.

I dolci per il matrimonio a Nuoro

A Nuoro la tradizione vuole che i dolci per la sposa siano sos coros, che letteralmente significa cuori, ma che sono modellati anche a forma di gallinelle, pesci o colombelle. Si tratta di una sfoglia finissima di pasta violata (semola, strutto, acqua) sulla quale si depone una farcia fatta di mandorle, miele e scorza d’arancia. Si richiude poi con una seconda sfoglia, che ha però una sorta di “finestra” dalla quale si vede il ripieno. Le decorazioni sono tutte intorno alla finestra e ricordano i grani dei rosari o la filigrana dei bottones (bottoni), prezioso complemento al costume tradizionale. I coros sono dolci grandi, che pesano anche un chilo e che, per tradizione, sono preparati dalla suocera per la nuora in numero di nove. La versione mignon sono i durchicheddos, che per tradizione vengono regalati ai parenti e agli amici al momento dell’invito al matrimonio.

coros di Nuoro
Coros di Nuoro – per gentile concessione di Cristina Piras

Ad Atzara e Neoneli, non lontano da Nuoro, per i matrimoni si preparano i garminos (o germinos, o gesminus) che sono fatti di mandorle – scelte tra quelle più grosse e bianche – tagliate a scaglie e immerse in un denso sciroppo di zucchero, scorza di limone e acqua di fiori d’arancio. Le mandorle vanno poi disposte a piramide e lasciate asciugare; la decorazione più bella è quella con piccoli frammenti di sfoglia d’oro.

I caschettes: fini come carta velina

Sempre nei pressi di Nuoro, a Belvì, si fanno altri dolci bellissimi, finissimi e delicatissimi. Sono sempre a base di pasta violata, che va tirata in sfoglie strette e sottili comente su papperi ‘e seda (come la carta velina), su cui si posano lunghi bastoncini di un ripieno composto di nocciole, miele e acqua di fiori d’arancio. Le strisce di pasta si piegano in due, si avvolgono e si chiudono modellandole in lunghe volute. I caschettes si possono decorare con confettini colorati e appaiono delicatissimi, quasi eterei, proprio come dev’essere un velo da sposa ricamato. Per tradizione fare questi dolci è compito della mamma dello sposo con l’aiuto di vicine e comari; lo sposo li offrirà alla sposa il giorno stesso della nozze.

caschettes
Caschettas - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Dolci bianchi come il latte

Nella zona del Marghine, sempre in provincia di Nuoro, in particolare a Bortigali, per le nozze si usava (e in alcuni casi ancora si usa) un dolce molto semplice, legato alla vita agropastorale tipica della zona: la frissura de latte (latte fritto). Il latte fresco si mescola con semola e zucchero e a volte scorza di agrumi grattugiata, poi si fa asciugare in padella fino a che non diventa una massa lavorabile. Si divide in piccole porzioni che si immergono nell’uovo sbattuto, si friggono in olio d’oliva e si ripassano nello zucchero.

Le capigliettas di pasta violata e crema di mandorle

Nell’Oristanese, in particolare nella zona del Montiferru, per i matrimoni sono d’obbligo le capigliettas: un bianchissimo guscio di pasta violata – fatta cioè con semola, acqua e strutto lavorati molto a lungo – a forma di rombo o di cuore che racchiude una crema di mandorle, uova, liquore e scorza di limone. Le capigliettas sono glassate e decorate con fiori, spighe di grano, spirali, grappoli d’uva, forme geometriche di glassa reale. A volte si usa un colorante rosa, a volte si aggiungono confettini colorati o sfogliette dorate.

I dolci per il matrimonio nel sud dell’isola: vere opere d’arte

Più a sud, a Quartu Sant’Elena, presso Cagliari, tra i dolci preparati per il matrimonio ci sono i pastissus. I gusci di pasta violata, che racchiudono pasta di mandorle lavorata con uova, sciroppo di zucchero, acqua di fiori d’arancio, vengono cotti in appositi stampi chiamati mollus, a forma di rombo. La decorazione finale è fatta con la pasta in cortza, una glassa molto densa, bianchissima e con un intensissimo profumo di acqua di fiori d’arancio. Con questa glassa si riempiono dei piccoli coni di carta che vengono usati come pennelli per fare decori a forma di fiori, colombe, disegni astratti simili al pizzo.

Dolci quartesi
Dolci quartesi (foto 1) – per gentile concessione di Anna Maria Sarritzu

Sempre a Quartu Sant’Elena si possono assaggiare altri dolcetti matrimoniali che incantano per la bellezza e l’accuratezza dell’esecuzione: i candelaus prenus e i candelaus sbuidus. Sono, come dicevamo, i druccis finis (dolci fini) per eccellenza; vere e proprie opere d’arte di pasta di mandorle. I primi sono delle “scodelline” di pasta di mandorle piene di mandorle candite e aromatizzate con acqua di fiori d’arancio, che vengono chiuse con una glassa bianchissima a sua volta decorata con glassa reale e pasta in cortza. I secondi sono invece pasta di mandorle modellata in varie forme e poi glassata. La realizzazione dei candelaus richiede un’abilità straordinaria; anche perché non sono più grandi di tre centimetri e pesano non più di venti grammi e spesso sono anche decorati con minuscoli particolari in foglia d’oro.

dolci quartesi Sardegna
Dolci quartesi (foto 2) – per gentile concessione di Anna Sarritzu

Anche i mustazzoleddus sono dolci fini di Quartu Sant’Elena; sono a forma di rombo e sono decorati con elementi tridimensionali di glassa reale e pasta di zucchero e poi confezionati in carta velina dai colori pastello. Della stessa famiglia sono i mustazzoleddus de mendula tipici di Paulilatino, in provincia di Oristano; questi dolci sono di pasta di mandorle tagliata a forma di rombo a mano libera – o modellata a forma di cuore – e poi ricoperta di una glassa bianchissima di zucchero e confettini d’argento. Raramente questi dolci si fanno in casa; in genere si preferisce commissionarli con grande anticipo alle maestre, le mastras drucceras, donne dotate di esperienza, conoscenza delle tradizioni, abilità; spesso molto anziane.

Dolci quartesi
Dolci quartesi (foto 3) – per gentile concessione di Anna Maria Sarritzu

Nel Campidano mandorle e fiori d’arancio

I pistoccheddus prenus sono tipici del Campidano di Cagliari e sono fatti con una pasta simile a quella violata (semola, strutto, acqua), ma con l’aggiunta di uova, zucchero, scorza d’agrume. La pasta viene tirata in una sfoglia sottilissima, poi divisa in nastri sui quali viene deposto un impasto di mandorle, zucchero e acqua di fiori d’arancio. I pistoccheddus sono piccoli ma pesanti e sono a forma di cuore o di anelli intrecciati con bellissime decorazioni di glassa reale a forma di colombelle e fiori, cui si aggiungono confettini e sfoglia d’oro.

dolci quartesi
Dolci quartesi (foto 4) – per gentile concessione di Anna Maria Sarritzu

Tra i dolci per il matrimonio in Sardegna c’è anche il croccante di mandorle

Un’altra tipologia di dolci che si prepara per i matrimoni celebrati in modo tradizionale è quella dei croccanti di mandorle, che sono spesso creazioni enormi, estremamente elaborate, che escono solo da mani molto esperte. Si tratta dei cattò, o gattò, o gattou (a seconda delle zone), accomunati dagli ingredienti: mandorle, acqua, zucchero – oppure zucchero e miele – scorza di agrumi o acqua di fiori d’arancio.
A Bono (Sassari) sono attive sas maistras de su cattò, custodi della tradizione e della tecnica per costruire (letteralmente!) con il croccante modellini di case con moltissimi particolari. La tradizione prescrive che sia la mamma dello sposo a commissionare questo dolce per donarlo alla nuora come augurio di salute e prosperità. Dello stesso tipo è il dolce per i matrimoni tradizionali che si prepara all’altro capo dell’isola, a Carloforte, sull’isola di San Pietro (isola nell’isola, Sud Sardegna): un enorme croccante alto anche due metri che rappresenta una casa, decorato con confetti, cioccolatini, caramelle e bandierine. Per prepararlo occorrono settimane.

croccante o gattò sardo
Gattò o croccante sardo - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


Ringraziamenti:
Gli splendidi dolci quartesi che illustrano questo articolo sono stati realizzati dalla maestra Anna Maria Sarritzu, che ringrazio con tutto il cuore per la grande disponibilità dimostrata nel condividere le immagini delle sue creazioni, vere e proprie opere d’arte. I coros sono opera della bravissima Cristina Piras, che mi ha gentilmente concesso una foto. Ci sono anche i dolci di Claudia Casu, amica e maestra, che ugualmente ringrazio. Ringrazio anche titolari e personale di Dolcidea, pasticceria di Sassari, per la consulenza.


Bibliografia e sitografia:
I dolci in Sardegna. Storia e tradizione, Ilisso, Nuoro 2011
Sardegna Agricoltura

Per il Gran Tour della Sardegna parliamo di erbe... magiche



Elicriso - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


Il Gran Tour della Sardegna di Aifb ha, per questa tappa, un'ospite d'eccezione: la scrittrice e cara amica Claudia Zedda. 

Claudia, grande esperta dell'argomento, ci parla di erbe spontanee sarde e del loro uso. 

Cucina povera, ma anche… magia attraverso le testimonianze raccolte sul campo. 

Leggete.




***********************************************************************************


Ecco l'articolo:


Gran Tour d’Italia, la Sardegna. Erbe magiche che nutrono, erbe magiche che curano

Il mondo delle erbe, spontanee o coltivate, in Sardegna come in molte altre realtà agricole e pastorali è strettamente legato alla vita di chi le raccoglie, di chi le lavora e di chi le utilizza. Moltissime erbe sono edibili, sono curative, alcune persino magiche e, fino a non molti decenni fa, erano una delle maggiori fonti di cibo cui avevano accesso gli abitanti della Sardegna. Molti informatori anziani oggi ci tengono a sottolineare quanto siano state importanti per loro in età infantile.

Le erbe per la cucina e la cura: approvvigionarsi in campagna

La signora Agnese, casalinga, nata a Villasimius oggi residente a Castiadas (Cagliari), ricorda come ogni stagione aveva le sue erbe e tutte ci sembravano buone, perché a quei tempi c’era fame. E ancora: ci aiutavano a sopportare la fame; molto di quello che trovavamo in campagna lo mangiavamo fresco e appena raccolto. Erano più spesso le ragazzine a raccogliere le erbe che venivano utilizzate per la preparazione di pietanze familiari. Le persone più povere invece le raccoglievano per sé e per chi gliele acquistava.
Agnese ricorda anche di come la campagna fosse non solo un supermercato a cielo aperto, povero ma sempre accessibile, ma anche una farmacia disponibile per la cura di qualsiasi male. Il mal d’orecchio lo curavamo con s’arruda (la ruta). La facevamo soffriggere nello strutto a fuoco basso e poi il liquido veniva fatto colare sulla parte dolorante. Mi ha curato così mia madre e io ho curato alla stessa maniera i miei figli.Appare chiaro il rapporto di dipendenza, necessità e fiducia che un tempo legava i sardi al proprio territorio.

Le molte erbe spontanee della Sardegna: raccolta e riconoscimento

La raccolta delle erbe per utilizzi alimentari familiari e medici era di competenza femminile, ma anche gli uomini raccoglievano, conoscevano e selezionavano le erbe idonee a qualsiasi occasione. Salvatore, il marito di Agnese, pastore oggi in pensione, tutte le volte che glielo si domanda, mostra con estremo orgoglio e molta nostalgia, alcune delle erbe che un tempo si consumavano: alcune me le sono dimenticate, altre, quelle che mi piacevano di più o che usavo più spesso, le ricordo ancora! dice. Ancora oggi, quando le ginocchia glielo consentono raccoglie il nastruzzu de riu, ovvero il crescione, per le insalate fresche ed è in grado di mostrare su pizziadori (l’ortica) – che alcuni mangiavano, ma non lui – la lavanda selvatica e l’elicriso, usate per abbruschiai (abbrustolire) il maiale.

Medicina e magia delle erbe sarde

Quando le erbe erano raccolte per essere utilizzate come medicina le attenzioni aumentavano: la raccolta avveniva in momenti particolari dell’anno e della giornata e in condizioni attentamente selezionate. In genere si aveva consapevolezza del “tempo balsamico” di ciascuna pianta: ognuna veniva raccolta nel momento in cui era presente il miglior contenuto di principi, non necessariamente il maggiore. Genericamente questo significava raccogliere le erbe durante il ciclo di San Giovanni Battista, tra il 23 e il 29 di giugno.

elicriso erba spontanea
Elicriso - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


Le erbe venivano raccolte all’alba o al tramonto, in zone selvatiche precedentemente studiate e analizzate. Solo in rari casi si decideva di coltivare nel proprio giardino le piante spontanee: questo accadeva per esempio per il fenùgu bonu o matafaluga, ovvero il finocchietto selvatico (Foeniculum Vulgare), specie comunissima in Sardegna e dalle forti connotazioni magiche. Era medicina, ma anche ingrediente insostituibile in cucina. In alcuni casi le erbe si raccoglievano con la luna calante: si riteneva che esattamente come la luna, anche i sintomi della malattia affrontata con quella particolare erba sarebbero calati e la malattia risolta.
Le erbe raccolte potevano essere lasciate essiccare, oppure conservate con olio, aceto, vino, in grappa, strutto, o usate fresche. In questo caso potevano essere battute legno su legno. Le informatrici dicono che una delle basi più idonee era sa mesa ‘e su pani (il tavolo impiegato per la panificazione). Vista la sacralità che circonda la preparazione del pane, è facile immaginare che anche le erbe godessero della stessa stima. In pratica ogni erba poteva essere considerata, in base all’occasione, alimentare, curativa, aromatizzante o magica.

Le erbe alimentari, curative e magiche

Oggi abbiamo poco tempo e gli spazi veramente naturali sono sempre meno: siamo quindi obbligati a ridurre drasticamente il numero delle erbe spontanee da raccogliere, scegliendo accuratamente quelle che sono più apprezzate.

sos fumentos
Sos Fumentos  - Foto per gentile concessione di Claudia Zedda


L’asparago (Asparagus acutifolius), in lingua sarda sparau aresti, è oggi come ieri particolarmente apprezzato in cucina: può essere cotto sotto la cenere calda, oppure soffritto in padella con l’aggiunta di uova dando vita a un piatto semplice come sparau a ischischionera. Può essere protagonista della turta de sparau (frittata) o finire in un risotto con l’aggiunta di finocchietto, bietola e cicoria di campo. Un tempo l’asparago selvatico era usato anche come diuretico e per la cura dei calcoli renali; è curioso ricordare anche che con i rami della pianta si creavano delle scope adoperate dalle spigolatrici nelle aie.
La bietola (Beta maritima se selvatica, Beta vulgaris se coltivata) è un’altra pianta nota e usata in tutta la Sardegna oggi per scopi squisitamente alimentari, ma un tempo anche per scopi medicinali. Viene lessata per la preparazione di frittate o per la realizzazione dei ravioli: kulingònis de èra, ma anche, genericamente, is kuluxònes. Le bietole finivano spesso in zuppe o risotti e, in più rari casi, erano utilizzate a scopo terapeutico. Potevano essere utili per uso esterno come emolliente, decongestionante, antiinfiammatorio, applicando la foglia direttamente sulla parte compromessa. Erano utili contro eritemi e bruciori da allergia. La foglia fresca battuta su legno era mescolata ad albume d’uovo e olio d’oliva e applicata sulla parte dolorante.
Da segnalare anche la portulaca (Portulaca oleracea L.), chiamata sa proceddana e con molti altri nomi. È una delle piante segnalate da Salvatore, usata in insalata, salamoia, ma anche per curare molte patologie.
In Sardegna come altrove era usata per le sue proprietà diuretiche, emollienti e antiscorbutiche; si usava contro le infiammazioni in generale, per la cura degli occhi, e per la cura di infiammazioni e vermi intestinali. Per via esterna invece era spesso usata come vulnerario nelle ferite.
Impossibile non accennare anche all’aglio, alimento fondamentale nella dieta dei sardi e medicamento preziosissimo. Nella varietà triquetrum, àpara in lingua sarda, veniva e viene consumato crudo in insalata o cotto in frittate molto apprezzate. L’aglio, nell’ambito medico popolare, era usato per la cura di diverse patologie: in caso di congiuntivite si alitava sugli occhi dopo aver masticato o mangiato alcuni spicchi di aglio; per favorire il parto si potevano fare fumigazioni di aglio alle parti intime bruciando in un braciere le trecce di foglia essiccate, religiosamente conservate. Era inoltre considerato antimalarico e l’aglio fresco era strofinato contro le punture di insetti con ottimi risultati.
Contro gli eritemi si preparava un particolarissimo olio noto sull’isola come òllu minàu: venivano emulsionati spicchi d’aglio tritati con acqua di fonte e olio extravergine di oliva. In caso di coliche veniva praticata la mexìna de ir cinku kòsas (la medicina delle cinque cose). L’aglio era l’ingrediente fondamentale. L’aglio era ingrediente anche di molte terapie magico-rituali: attraverso l’aglio (non meglio definito) si praticava una particolare forma di esorcismo. Sa morridùra si praticava contro le infezioni provocate dalle punture di insetti, come per esempio le pericolose zecche: l’aglio veniva pestato e passato sulla parte in forma di croce.

Le erbe “naturalizzate”: una risorsa importante

Da segnalare anche il fico d’India (Opuntia ficus indica), noto in Sardegna come figu morisca, introdotto dagli spagnoli in Europa nel XVI secolo e velocemente naturalizzato in tutto il Mediterraneo. È stato un’incredibile riserva alimentare per molti sardi: si utilizzava il frutto, crudo o cotto, ma anche, in condizioni di estrema povertà, la polpa delle pale più giovani. Ci troviamo davanti ad un chiaro esempio di pianta spontanea alimentare e curativa. Il frutto ancora oggi viene mangiato crudo, appena colto, oppure viene utilizzato per preparare deliziose conserve e squisiti liquori, nonché una apprezzata sapa.
Sia le pale giovani, i cladodi, sia i frutti sono usati per l’alimentazione del bestiame. La sapa diluita in acqua era usata in caso di morbillo, mentre il fiore essiccato era assunto in forma di infuso nel caso di disturbi allo stomaco o per smaltire gli effetti di una grande bevuta. I cladodi erano invece usati contro varie malattie della pelle: furuncolosi, ascessi, mastiti, ferite o punture, ustioni, tumefazioni, geloni, dolori reumatici, bruciature, calli. La pala veniva tagliata in due, riscaldata e applicata sulla parte interessata. Poteva anche essere pestata legno su legno e l’impiastro poi applicato con olio o come cataplasma. Recenti studi dimostrano l’efficacia della pianta nella cura del diabete, dell’obesità e delle affezioni infiammatorie. Il fico d’india era ritenuto inoltre una pianta magica: dotato di aculei pungenti, lo si riteneva in grado di tenere lontano il malocchio e i visitatori male intenzionati. Per questo, e altri motivi, veniva posto a recinzione dei terreni di proprietà.

sidro di fuoco
Il sidro di fuoco - Foto per gentile concessione di Claudia Zedda

Il potere del profumo delle erbe spontanee

Chiudiamo questa breve disamina ricordando che molte erbe erano considerate dei veri e propri aromatizzanti. Salvatore ricorda per esempio che la peluria del maiale veniva bruciata con l’uso di lavanda selvatica (Lavandula Stoechas) e dell’elicriso (Helicrysum italicum microphyllum). Questa sorta di “scopetta agreste” era utile per la pulizia della carne ed era in grado di regalarle un incredibile aroma. Un’altra curiosità: l’elicriso, pianta magica e protettiva per eccellenza, veniva usato dalle donne sarde per la profumazione degli ambienti, degli indumenti e per la depilazione delle gambe: la pianta appena bruciata veniva sfregata contro le zone da depilare.

Testo e foto di Claudia Zedda

Claudia Zedda, ospite del Gran Tour della Sardegna, vive a Cagliari. É autrice affermata di saggistica e narrativa; antropologa; esperta di gastronomia e di trattamento delle erbe spontanee sarde, di cui ci parla oggi.


Per il Gran Tour della Sardegna oggi parliamo di frutta secca e torrone



Frutta secca e torrone sardo - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


Miele e frutta secca: gli ingredienti fondamentali per il torrone sardo. 

Per il Gran Tour della Sardegna di Aifb oggi parlo di mandorle, noci e nocciole, del torrone, della sua storia, della sua tradizione legata alle feste e a tutte le più belle sagre di paese.

Leggete.

**********************************************

Ecco l'articolo:

Gran Tour d’Italia, la Sardegna. Il torrone in Sardegna: storia e tradizioni
Frutta secca e torrone sardo - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Gran Tour d’Italia, la Sardegna. Il torrone in Sardegna: storia e tradizioni

Moltissimi dolci sardi sono preparati – in numerose versioni, diverse da paese a paese – con mandorle, nocciole e noci: pensiamo ad amaretti, gueffus, pabassinos, copulettas, candelaus, sospiros, gattò e, naturalmente, al torrone, che in Sardegna è morbido e ricco, preparato con il miele delle essenze mediterranee.

I mandorli e le mandorle di Sardegna: varietà e storia

I mandorli sono alberi diffusi in tutta la Sardegna, così come in tutti i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente; sono alberi a crescita lenta, ma molto longevi – possono raggiungere i mille anni – perdono le foglie in autunno, ma in primavera sono i primi a fiorire: bastano due giorni di sole a febbraio per poter ammirare i loro grandi fiori bianchi, che spiccano per qualche giorno su un cielo ancora invernale, per lasciar poi velocemente spazio alle foglie.

mandorle torrone sardegna
Mandorle sarde sgusciate - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


In ogni campagna da nord a sud dell’isola, seppur piccola, si trova almeno un mandorlo e, un tempo, la produzione di mandorle poteva essere una buona fonte di reddito per una famiglia. La coltivazione a scopo commerciale – in particolare per l’esportazione – iniziò però solo all’inizio del ‘900 e declinò nel giro di un cinquantennio. Oggi in Sardegna sono dedicati alla coltivazione esclusiva del mandorlo solo duemilacinquecento ettari (concentrati al sud dell’isola), che si aggiungono ad altri settemila di colture promiscue. La resa è tale che la Sardegna è la terza produttrice italiana di mandorle, dopo la Sicilia e la Puglia. Le varietà locali sono la Arrubia, la Cossu, la Olla, la Schina ‘e porcu; leggermente diverse in termini di grandezza del frutto e di portamento dell’albero, ma tutte caratterizzate da quello che è il grande pregio delle mandorle sarde: il ridotto contenuto di acqua e il grande contenuto di olio, che costituisce fino al 58% del peso. Ciò esalta le qualità nutritive e organolettiche delle mandorle, ma anche il gusto e la durabilità dei dolci per cui si usano.

La coltivazione del nocciolo: meglio le varietà locali

Il nocciolo – in sardo nucedda, nuxedda, nizzòla, linzòla… – invece si può trovare solo in alcune zone montane dell’isola; storicamente la produzione commerciale è limitata quasi esclusivamente a circa cinquecento ettari nella Barbagia di Belvì, nei comuni di Aritzo, Belvì e Tonara, tutti in provincia di Nuoro. Negli anni ’20 del secolo scorso la Sardegna era al quarto posto in Italia per la produzione di nocciole; quarant’anni dopo gli ecotipi locali furono in gran parte sostituiti da varietà importate come, per esempio, la Tonda Gentile delle Langhe. Scelta non felice, tanto che questi impianti sono oggi completamente abbandonati.

Nocciole torrone sardegna
Nocciole sarde - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Il noce: un albero magico, molto amato in Sardegna

Per quanto riguarda le noci, la produzione in Sardegna è limitatissima e gli alberi raramente vengono sfruttati intensivamente a scopo commerciale; si tratta di alberi spontanei, spesso di grandi dimensioni, che crescono nei boschi a diverse altezze, oppure di alberi “di casa” – nughe, nuhe, còcoro, nòu… – piantati per ombreggiare il cortile e sfruttati non solo per i frutti, ma anche per il mallo che li ricopre e per le foglie, che servono per fare liquori, per la tintura dei tessuti e del legno, per dare bei riflessi ai capelli scuri, per allontanare gli insetti da armadi e cassapanche. Inoltre, qui come in altri paesi affacciati sul Mediterraneo, il noce e le noci avevano, e hanno ancora in alcuni casi, un’aura magica, tanto che con i gherigli, i gusci, il mallo, le foglie si preparavano amuleti dal valore apotropaico.

Il torrone: storia di un dolce molto amato in Sardegna

Mandorle, noci e nocciole sono utilizzate, come dicevamo, per dolci tradizionali come il torrone, che le sposa al miele sardo nelle sue diverse essenze. Il torrone è simbolo di festa per eccellenza ed è generalmente ancora preparato con metodiche artigianali, in particolare in alcuni paesi della provincia di Nuoro come Tonara – dove ogni anno a Pasquetta si tiene una frequentatissima sagra – Desulo, Aritzo.
Non è escluso che un dolce molto simile si producesse anche in tempi precedenti, ma le origini del torrone sardo come lo conosciamo oggi sono, con molta probabilità, spagnole e risalgono al XVII secolo quando, in alcuni documenti commerciali redatti tra importatori catalani e produttori sardi, si parla di un ordine di torrons blancs y negres e di neules (ostie). Un ordine cospicuo, tanto da indurre il produttore ad assumere manodopera aggiuntiva. Gli Spagnoli a loro volta avevano fatta propria una ricetta araba, già nota nell’alto Medioevo, che prevedeva di mescolare e cuocere insieme mandorle e miele. L’ostia che riveste il torrone “moderno” viene invece da Genova; l’industria Travi la commercializza nell’isola solo dal 1898.

Il torrone sardo: una ricetta semplice per un risultato squisito

La ricetta è in sé piuttosto semplice: si scalda il miele in su cheddargiu, un calderone di rame, si aggiungono albumi e si mescola fino a che il composto non monta; si abbassa il fuoco – che un tempo, nei piccoli laboratori, era alimentato a legna, possibilmente di agrifoglio che brucia senza fare fumo – e si cuoce per circa due ore. A quel punto si aggiungono (intere nei torroni di miglior qualità) mandorle o nocciole tostate, oppure noci. La massa viene lavorata con attrezzi di legno e versata in cassette – sempre di legno – rivestite di carta pergamena e ostie, dove viene lasciata a raffreddare. Ciò che conta è la qualità della frutta secca e del miele, che dev’essere usato in purezza, mai mischiato allo zucchero. Il torrone di noci, per esempio, è meno diffuso, è particolarmente delicato e ha una conservabilità limitata; quello di mandorle può essere prodotto con diverse eccellenti qualità di miele, compreso il raro miele di corbezzolo. Comuni a tutti i tipi di torrone sardo sono l’aspetto compatto, il colore avorio e la morbida cedevolezza in bocca dovuta alla preparazione tradizionale.
Gustare un ottimo torrone in Sardegna è facile; a ogni festa di paese – sia religiosa o mondana – le bancarelle per acquistarlo non mancano e spesso vengono organizzate piccole dimostrazioni della lavorazione. Non è raro vedersi offrire il torrone ancora caldo, spalmato su un’ostia o su un pezzo di pane; un’occasione da non lasciarsi scappare.


Bibliografia e sitografia:
Piante medicinali in Sardegna, Enrica Campanini, Ilisso, Nuoro 2009
La corilicoltura in Sardegna, Loru – Pantaleoni, Ispra
Sardegna Agricoltura – Produzioni vegetali, Sardegna Agricoltura – Ambiente e Territorio
Sardegna Agricoltura – prodotti tipici

Per il Gran Tour della Sardegna oggi parliamo di pane carasau



Pane carasau - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


Per il Gran Tour della Sardegna di Aifb oggi vi porto al forno.
Parlo di pane carasau, del perché è così e del come si fa; di come appare nell'arte; di come è ancor oggi espressione dell'anima sarda più vera. 

Leggete.

********************************************

Ecco l'articolo:

Gran Tour d’Italia. la Sardegna. Carasau: un pane conosciuto in tutto il mondo

Il pane carasau è forse il tipo di pane tradizionale sardo più conosciuto al di fuori della Sardegna. Poiché è facile da confezionare e trasportare e si conserva a lungo, si può trovare in molti negozi, anche della grande distribuzione, un po’ ovunque nel mondo. Conoscere meglio la sua storia e la tecnica di lavorazione tradizionale è però un’esperienza affascinante che si può fare solo sull’isola, davanti a un forno a legna.

Il pane carasau: il pane “perfetto” della tradizione

La Sardegna è la terra del pane da mangiare, da conservare, da benedire, del pane legato alle ricorrenze e alle tappe della vita. E si può assaggiare in una varietà di forme e consistenze difficile da elencare. Ci abbiamo provato nell’articolo sui pani quotidiani della Sardegna del 3 agosto e ci proveremo ancora, perché è un argomento che ci appassiona.
Il pane carasau è “perfetto” con la sua grande forma rotonda, sottile, croccante; è disponibile a farsi manipolare per molte ricette e nasconde bene il lungo lavoro artigianale che serve per ottenerlo. Fino agli anni ’40 del XX secolo era probabilmente il pane più diffuso nelle zone centrali dell’isola. Si cuoceva in ogni paese – quasi sempre nel forno comune – e serviva da provvista per la casa; ma veniva anche piegato in quattro quando era ancora caldo e riposto in sas tascheddas (le bisacce) per diventare “pane da viaggio” per gli uomini che stavano a lungo lontani da casa con le greggi.

Il carasau nelle opere degli artisti sardi

Sono bellissime le descrizioni che ne danno due grandi artisti sardi: Francesco Ciusa (1883-1949) e Salvatore Satta (1902-1975), entrambi nuoresi. Quella di Ciusa è fisica, tridimensionale, commovente e si esprime nella scultura intitolata Il pane, che raffigura una donna seduta a terra, con l’asse di legno sulle ginocchia intenta a impastare. Ancor oggi è possibile vedere donne anziane di paese che lavorano il pane in questo modo. Quella di Satta è fatta di parole che rievocano l’infanzia, che parlano di comunità e della storia di molti sardi Questa metteva la sfoglia su una pala liscia e sottile […] infilava la pala nel forno e la sfoglia al calore diventava, se era ben fatta, un’immensa palla (Il giorno del giudizio, 1977)

Gran Tour Italia Sardegna carasau impilato
Pane carasau impilato - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Il pane carasau fatto in casa: la Sardegna e le sue tradizioni più vere

I passaggi per fare il pane carasau in casa – il che include anche piccoli gesti scaramantici, come raccogliere le briciole e offrirle alle anime dei defunti, o chiudere la bocca del forno nel caso passi un estraneo, così da proteggere da occhi indiscreti la sacralità della nascita del pane – sono diversi e ben codificati. Ogni porzione di pasta fatta di semola, lievito madre, acqua e poco sale, già lievitata e “riposata”, viene lavorata su una tavola (mesa) aggiungendo un po’ d’acqua tiepida. Questa operazione si ripete fino a che la pasta è abbastanza elastica da essere divisa in sfere schiacciate, che vanno poi spianate. Le donne addette a questa operazione sono sas tendidoras, sono tre e lavorano con il matterello (cannèddu): la prima abbozza la forma, la seconda spiana e la terza – la più abile – ottiene la sfoglia, sottilissima e circolare (sa tunda), che dev’essere senza imperfezioni o la cottura rischia di non riuscire. Il pane, infatti, si fa sempre insieme, in comunità, mai da sole.
Prima di infornare, la donna addetta al forno lo ripulisce con un fascio di erbe bagnate; quindi introduce sa tunda con una pala di castagno infarinata e lascia che si gonfi come una grande palla semitrasparente governando il fenomeno con un altro attrezzo: sa palìtta. Una volta sfornato, il pane si sgonfia e torna nelle mani delle panificatrici, che lo dividono in due sfoglie – una leggermente più spessa dell’altra – che vengono rimesse brevemente in forno per biscottare, ovvero carasare, o arridare.
Gran Tour Italia Sardegna carasau
Sfoglie di pane carasau - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati



Le sfoglie mediamente pesano 25 grammi l’una e hanno un diametro di circa 50 centimetri; ma in alcuni paesi la tradizione le vuole grandi il doppio e in altre più o meno la metà. Alla fine della lavorazione vengono messe a piradas, ovvero sovrapposte in torri alte anche un metro.

Il pane carasau: molto usato in cucina e sempre disponibile

Chi visita oggi la Sardegna può trovare il carasau in ogni negozio di alimentari, ristorante, agriturismo, trattoria; semplice, integrale, condito con olio e sale – e allora è su pani guttiau – utilizzato in cucina in modo tradizionale o creativo. Sul fronte della tradizione si schierano il mazzamurro, che consiste in pane carasau bagnato di brodo e condito con pomodoro e pecorino; la suppa cuadda, che è più o meno la stessa cosa, ma senza il pomodoro, con più brodo e più pecorino. All’elenco possiamo aggiungere su pane frattau, piatto decisamente più robusto che prevede, oltre al pane, al sugo denso e al formaggio, anche una o più uova.

Gran Tour Italia Sardegna carasau per spuntino
Pane carasau durante uno spuntino - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


Sul fronte dell’innovazione c’è anche chi frigge il carasau arrotolato e lo riempie di crema di ricotta di pecora, ispirandosi ai cannoli siciliani; o lo utilizza come la pasta in una lasagna, condendolo a strati con ragù o verdure. In ogni modo è la qualità che conta: lievito madre e ottimo grano duro coltivato in Sardegna.


Bibliografia e sitografia:
La sacralità del pane in Sardegna. Riti, credenze, miti e simboli della panificazione tradizionale, Marisa Iamundo de Cumis, Carlo Delfino Editore, Sassari 2015
Il giorno del giudizio, Salvatore Satta, Adelphi, Milano 1979
Sardegna Agricoltura – prodotti tipiciIstituto etnografico della Sardegna

Per il Gran Tour della Sardegna oggi parliamo di vini poco conosciuti e vini naturali



Uva sarda - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


Per questo articolo ho intervistato l'amico cuoco e sommelier Piero Careddu. Il Gran Tour della Sardegna di Aifb ci porta a scoprire alcuni vitigni sardi quasi sconosciuti; ci aiuta a capire meglio cosa si intende per "vini naturali"; ci fa capire quanto conta oggi… seguire la moda anche in fatto di vini. 

Leggete

***********************************************************************************

Ecco l'articolo:

Gran Tour d’Italia, la Sardegna. Intervista a Piero Careddu, chef e sommelier
Vite sarda - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Gran Tour d’Italia, la Sardegna. Intervista a Piero Careddu, chef e sommelier

Per il Gran Tour della Sardegna abbiamo pubblicato qualche giorno fa un articolo sui principali vitigni isolani; dal Cannonau al Vermentino, passando per Bovale, Monica e Malvasia. Oggi continuiamo a parlare di vino con un’intervista a un esperto.

Piero Careddu: nato in Sardegna, chef poco allineato

Piero Careddu, chef, sommelier, blogger, enogastronomo è nato a Olbia nel 1959 – ci tiene a precisare di essere del segno del Leone ascendente Scorpione – e ha lavorato in Sardegna per trentacinque anni nel campo della ristorazione. Mi ha confidato che la sua più bella esperienza professionale è stata la gestione in proprio del celebre ristorante di Sassari Antica Hostaria, anche se le soddisfazioni non sono mai mancate, e la sua vena creativa di chef poco allineato al mainstream della cucina lo ha fatto apprezzare in molti contesti. Piero è anche sommelier professionista dal 1994 e, fino al 2005, è stato tra i degustatori ufficiali e docenti della Associazione Italiana Sommelier (Ais).

Materia prima, stagionalità, territorio: in Sardegna è più facile

Ho chiesto a Piero Careddu di descrivermi in due parole – anche tre, se occorre – l’idea di base della sua cucina.
Come ti dicevo, faccio il “mestiere dell’enogastronomo”, in tutte le sue variabili, da davvero tanti anni e ora che questi concetti sono diventati di moda mi pare di dire una banalità sottolineando che la mia idea di base in cucina è: qualità della materia prima, rispetto della stagionalità, importanza del territorio.
In molte altre regioni d’Italia, così come in Sardegna, la ricchezza della storia e la varietà delle materie prime e della loro applicazione in cucina sono un patrimonio di inestimabile valore. E lo stesso vale per i vini.

I vini sardi fanno tendenza o la subiscono?

Si può ben dire che la Sardegna oggi, dopo anni di marginalità, occupi un posto di spicco nella produzione e commercializzazione di ottimi vini, sia a livello nazionale sia internazionale. Piero, pensi che i vini sardi riescano a mantenere la propria personalità o che, per andare incontro al gusto dominante del grande pubblico, rischino di snaturarsi? Ovvero: dettano la tendenza o la subiscono?
Devo dirti, con la franchezza che da sempre mi accompagna e spesso mi rende antipatico, che la Sardegna, la mia terra, ha conosciuto fino a pochi anni fa un periodo enologicamente buio, rappresentato da un fiume di vini market oriented e vere e proprie scimmiottature – spesso malriuscite – di omologhi toscani e/o californiani.
Oggi per fortuna si fa avanti una sparuta ma agguerrita pattuglia di coraggiosi che mettono in primo piano la salute del consumatore e il linguaggio del territorio e della tradizione.
Uva sarda - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

 

Conciliare la viticoltura moderna con la tutela dell’ambiente oggi in Sardegna

Piero Careddu, ti conosco da diversi anni e so di te che sei un professionista e una persona molto attenta alla ricaduta sull’ambiente di tutte le nostre azioni. Parlami un po’ dello stato dell’arte della viticultura isolana: credi che sia possibile conciliare la viticultura con la tutela dell’ambiente in Sardegna?
Fare da mangiare e produrre vino sono atti profondamente politici e la tutela dell’ambiente dovrebbe essere il centro e la priorità di qualsiasi discorso politico. La tendenza a seguire le scorciatoie della chimica è ancora molto diffusa. Questo anche grazie a leggi che autorizzano a utilizzare di tutto e di più in vigna e in cantina. Per risponderti in modo diretto: certo che si possono conciliare qualità e ambiente! Occorre avere il coraggio di fare dei passi indietro e rivedere il concetto di buono e corretto.

L’opinione di Piero Careddu a proposito di vini naturali in Sardegna

Io, con il passare degli anni, bevo sempre meno. Il numero dei miei vini preferiti si è notevolmente ridotto e il mio senso del gusto si è affinato con la pratica, ma non sono assolutamente un’esperta. Ho chiesto a Piero Careddu di spiegarmi meglio cosa sono i vini naturali e come e perché questa particolare tecnica di coltivazione delle viti e di vinificazione può dare buoni risultati sia per il palato, sia per l’ambiente
Mi stai proponendo di dare il mio contributo a una querelle che è a tutt’oggi la maggior causa di risse sul web e non solo? Beh, ti posso dire che in realtà non esiste la definizione assoluta di “vino naturale” e posso dirti la mia idea in materia. Per potersi definire tale il vino, a partire dalle vigne, deve essere prodotto in un’ottica di totale rinuncia all’utilizzo di prodotti di sintesi: concimi, pesticidi, diserbanti e così via. Si possono solo tollerare i tradizionali zolfo e rame. In cantina sono banditi i lieviti selezionati e qualsiasi altro additivo che non sia l’uva. Non è facile ed è un cambiamento che deve partire da dentro la persona, dal sentire profondo del vignaiolo.

Uva nera Sardegna
Uva sarda - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

I vitigni meno conosciuti possono essere la vera ricchezza della Sardegna

La Sardegna è una terra dalla biodiversità ricchissima: endemismi animali e vegetali, adattamenti di specie e varietà unici, favoriti dall’insularità. La ricchezza della Sardegna si esprime anche in alcuni vitigni poco conosciuti e da valorizzare. Vitigni che – al momento – non hanno grande valore commerciale, i cui grappoli non possono essere utilizzati per la produzione di grandi quantità di bottiglie, ma che hanno molto da offrire. Ho chiesto a Piero Careddu di citarcene alcuni.
Vitigni un tempo considerati di serie B, come il Pascale, il Bovale, il Muristellu, utilizzati per “tagliare” uve più blasonate, hanno acquistato negli ultimi decenni autonomia e dignità, dando spesso vita a importanti interpretazioni.
La riscoperta di uve in via di estinzione, sempre più utilizzate come protagoniste, in purezza e dentro uvaggi, non è solo una tendenza, ma un momento cruciale di crescita identitaria. Ti faccio solo due esempi, anche se l’elenco potrebbe essere più lungo: il Caricagiola, uva rossa gallurese e il Cannonau bianco che cresce nella zona di Baunei e Santa Maria Navarrese, sulla costa est dell’isola. Quest’ultimo, che niente ha a che vedere, ampelologicamente parlando, con il Cannonau rosso, è un’uva bianca ancora non classificata la cui origine è misteriosa; l’ipotesi più accreditata è che derivi da un innesto spontaneo tra Cannonau e Vermentino. La sua vinificazione dà vita a un vino il cui gusto oscilla fra eleganza e note di selvaggia rusticità. Posso affermare che il bello deve ancora venire.

Conoscere l’isola attraverso i suoi vini migliori

La Sardegna, come tutte le altre regioni d’Italia, va visitata con lentezza e con frequenti fermate: per ammirare il panorama, per godere del profumo dell’aria, per parlare con la gente, per conoscere i veri sapori della cucina locale, per conoscere una terra attraverso i suoi vini migliori. Ringrazio Piero Careddu per avermi concesso un po’ del suo tempo e averci dato indicazioni non banali per iniziare a conoscere sentieri poco battuti, lontani dalle mode e dai luoghi comuni.

Per il Gran Tour della Sardegna oggi parliamo di riso e risaie sarde



Riso sardo - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Per il Gran Tour della Sardegna di Aifb oggi si va per risaie. 
Nell'articolo vi parlo delle varietà più pregiate di riso impreziosite dalle particolari condizioni climatiche e ambientali dell'isola; di un po' di storia e di ricette dolci e salate quasi dimenticate. 

Leggete 

**********************************************

Ecco l'articolo:

Gran Tour d’Italia, la Sardegna. Il riso: una sorpresa e un sapore unico
Riso sardo - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati

Gran Tour d’Italia, la Sardegna. Il riso: una sorpresa e un sapore unico

Per la maggior parte delle persone riso significa Piemonte, o Lombardia. Non tutti sanno, infatti, che anche in Sardegna si producono circa ventitremila tonnellate di riso l’anno – di ottima qualità – su più o meno tremilacinquecento ettari curati da ottantacinque aziende. Oggi il Gran Tour passa per le risaie sarde, che si trovano principalmente nei terreni pianeggianti, caldi e fertili della provincia di Oristano, a stretto contatto con il mare.

Un po’ di storia del riso in Sardegna

Il riso in Sardegna sbarcò molto probabilmente nel XV secolo. Fonti storiche parlano di alcuni piatti a base di riso serviti durante un banchetto allestito per festeggiare la prima messa celebrata da Antioco Marcello, rettore di Mamoiada, sotto il regno di Filippo II di Spagna (1527-1598). Il riso era considerato un cibo esotico e prezioso, portato sull’isola dagli Spagnoli, che avevano dimestichezza con la sua coltivazione fin dal Medioevo grazie agli insegnamenti degli Arabi, a loro volta presenti per secoli in Spagna.
Rimase però a lungo una coltivazione marginale, che richiedeva una tecnologia di convogliamento delle acque che non riuscì a diffondersi. Fu solo negli anni ’30 del XX secolo che si cominciò a pensare seriamente – all’indomani delle bonifiche dei numerosi terreni di natura paludosa – a una coltivazione a scopo commerciale. Oggi nell’Oristanese la risicoltura è una delle attività agricole più diffuse e produttive sia per le varietà di riso tradizionali, sia per le varietà più esotiche come Thaj o Basmati o, più di recente, Venere. Ciò che le rende particolarmente aromatiche e saporite è la vicinanza al mare; il terreno argilloso, che permette un minore dispendio di acqua e la concentrazione dei nutrienti; la presenza di una fauna caratteristica che mantiene l’equilibrio naturale della risaia. Dalle nostre parti non è raro, infatti, imbattersi in aironi, garzette e persino fenicotteri con le zampe a mollo tra le giovani piante di riso.

Carnaroli e Venere crescono bene in provincia di Oristano

Se il Carnaroli cresce bene, il riso Venere dà grandi soddisfazioni. È coltivato su circa duecentoquaranta ettari di terreni umidi e ha un elevato contenuto di sali minerali e vitamine. Nel susseguirsi delle annate produttive è diventato evidente che alcune zone della Sardegna sono particolarmente indicate per coltivarlo: in particolare la Valle del fiume Tirso, in provincia di Oristano. Questo perché la zona è ricca di acqua e quindi si pratica l’irrigazione naturale; il microclima è l’ideale per migliorare il sapore di questa varietà; il sole e il particolare grado di umidità favoriscono una germinazione più abbondante dei semi.

riso sardo RisOristano
Spiga di riso sardo – per gentile concessione di Marcello Stara, RisOristano

 

 Il riso nella cucina sarda: tradizione e fantasia

Raramente però il riso sardo varca il mare e non è facile trovarlo nei negozi del resto d’Italia. Non rimane che venire ad assaggiarlo sull’isola; sia nei ristoranti dove, passando per le abili mani di alcuni giovani e fantasiosi chef sardi, diventa protagonista di piatti moderni, di abbinamenti arditi che vanno dal pesce al dolce; sia nelle trattorie o negli agriturismi dove si possono ancora trovare alcuni piatti tradizionali. Non antichi, vista la storia recente del riso in Sardegna, ma di certo abbastanza radicati nelle comunità locali. La tradizione non contempla i risotti, ma si esprime bene con i timballi dolci e salati, che escono da uno stampo possibilmente di rame e con il buco al centro: s’isterzu de ràmine.
Il timballo dolce è tipico di Ardauli – meno di mille abitanti, nella regione storica del Barigadu, in provincia di Oristano – ed è il timballu ‘e arrosu, realizzato per i matrimoni. Il riso si fa cuocere a lungo in acqua salata, poi si sciacqua con il latte, quindi si mescola con uova, latte, scorza di limone grattugiata e pangrattato (a volte anche con un po’ di caffè) e si sistema per bene nello stampo, nel quale verrà cotto nel forno, a bagnomaria, coperto di strutto e zucchero. Quando esce dallo stampo è lucido grazie allo zucchero caramellato e il suo sapore è indescrivibile.

Venere e Carnaroli riso sardo
Riso sardo nelle varietà Carnaroli e Venere - Foto di Cristiana Grassi/Orata Spensierata diritti riservati


Anche nel Montiferru, regione centrale dell’isola che prende il nome da un antichissimo massiccio vulcanico, e in particolare a Scano Montiferro e Sennariolo (entrambi in provincia di Oristano) il riso è per gli sposi. Ma in forma di timballo salato: sa tumballa de sos isposos. La ricetta è legata agli sposalizi, ma veniva preparata il giorno dopo la cerimonia, quando i parenti ancora si trattenevano per salutare gli sposi e andavano necessariamente sfamati. Il riso andava cotto a lungo con brodo e pomodori secchi in modo da avere un bel colore ambrato. Quindi si cominciava a riempire lo stampo e, a metà altezza, si aggiungeva un ripieno di ghisadu (ragù di agnello o di altra carne) e/o di verdure come piselli e fave, o carciofi a seconda della stagione. Si aggiungeva poi un secondo strato di riso, si pressava bene fino a riempire lo stampo e farne scomparire il buco. Infine si ricopriva di lardo o strutto.
La cottura avveniva – molto lentamente – in forno ed era necessaria molta abilità per sformare il timballo senza romperlo. Difficile poterlo assaggiare oggi; solo pochi appassionati delle tradizioni gastronomiche locali si cimentano ancora nella sua preparazione: uno di questi è il cuoco Gian Luca Del Rio di Sennariolo il quale, con grande impegno, da anni recupera ricette locali e le propone nel suo ristorante.


Bibliografia e sitografia:
La cucina italiana. Storia di una cultura, Capatti – Montanari, Laterza, Bari 1999
Sardegna Agricoltura