Pasta & patate con funghi e bottarga

 

Pasta e patate e pasta e fagioli credo siano due tra le minestre più variabili e variate della cucina italiana a nord, est, sud, ovest e isole. Praticamente tre ingredienti di base che ogni famiglia interpreta a modo suo. Brodosa, densa, quasi asciutta… completamente vegetariana o con formaggio e/o guanciale, pepata, con l’aglio o senza, con la pasta spezzata, con i ditalini, con la pastina o la pasta all’uovo; quella di mamma, di nonna, di zia, della vicina di pianerottolo, della trattoria sottocasa, del ristorante stellato dove si va una volta al quinquennio. Tutte le varianti sono le benvenute. 

 

Questa è l’ennesima. Che, come praticamente tutto quello che cucino io, è un esemplare unico. Ovvero: la prossima volta che preparerò pasta e patate è quasi certo che sarà una cosa completamente diversa. Non esiste la “ricetta di Cristiana” (oltretutto io non sono mamma, né zia, non ho una trattoria e sul mio pianerottolo si apre solo la mia porta).

 


Per 4 persone vi serviranno:

 

240 g circa di pasta lunga da spezzare

4 patate medie

8 funghi coltivati – tipo champignon, cremini o cardoncelli

750 ml circa di brodo vegetale

2 spicchi d’aglio

1/4 di cipolla bionda

olio extravergine di oliva


4 cucchiai di panna acida o crème fraîche

2 cucchiaini di bottarga grattugiata


sale

pepe

 

Mondate, sbucciate e lavate le patate. Tagliatele a cubetti regolari e tenetele da parte.

 

Mondate e lavate i fungi e tagliateli a pezzetti regolari.

 

Mondate la cipolla e l’aglio e tritate il tutto.

 

Spezzate la pasta. Io ho usato un mazzetto di linguine, ma vanno bene spaghetti, spaghetti alla chitarra, anche degli ziti se preferite.

 

Scaldate il brodo vegetale.

 

In una padella piuttosto larga fate scaldare abbondante olio extravergine di oliva. Gettatevi aglio e cipolla e fateli insaporire. Aggiungete i dadini di patate e fateli saltare in modo che rosolino bene. Cuoceteli pochi minuti e poi aggiungete i funghi. Fate insaporire, poi bagnate con un mestolo di brodo e fate stufare dolcemente per 3 minuti circa.

 

Nel frattempo salate il brodo vegetale con qualche grano di sale grosso e cuocetevi la pasta molto al dente. Esempio: se per le linguine di solito servono 10 minuti, cuocetele 6.

 

Nel frattempo mescolate la panna acida (crème fraîche) in una ciotolina con la bottarga.

 

Ora prelevate la pasta con una schiumarola e trasferitela nella padella con patate e funghi, mescolate e terminate la cottura della pasta aggiungendo il brodo a piccoli mestoli.

 

Quando la pasta sarà pronta e ben amalgamata con le verdure, salate e pepate. Versate nei piatti e aggiungete un mestolino di brodo.

 

Un nanosecondo prima di servire distribuite su ogni piatto un cucchiaio di crema alla bottarga. Decorate a piacere. 

 


 

La créme fraîche è semplicemente della panna di latte fresco intero leggermente inacidita.

 

I francesi, però, sono molto pignoli in fatto di cucina e ne distinguono – a differenza dei tedeschi, che pure la usano spesso – ben sette tipi, o qualità diverse, che si caratterizzano per il differente trattamento termico, la pastorizzazione, oppure la brevissima “maturazione”. La base di partenza è sempre però la panna centrifugata di latte fresco intero con almeno il 30% di grassi e l’aggiunta di una piccolissima percentuale di “batteri buoni” che favoriscono una leggera fermentazione.

 

Trovare in vendita qui da noi anche uno solo dei “magnifici sette” tipi di originale créme fraîche francese è impossibile. Tanto vale farsela da soli.

 

Mescolate 100 grammi di panna fresca (con almeno il 35% di grassi) con circa 50 grammi di yogurt intero fresco, meglio se del tipo greco o comunque compatto. Non serve aggiungere succo di limone o simili. Mescolate energicamente e fate riposare in una ciotola coperta da un telo di cotone o lino per 24 ore in un luogo fresco. Trascorso questo tempo trasferite il composto in un barattolo a chiusura ermetica e conservate in frigorifero per qualche giorno. Potete usare la vostra créme fraîche come ingrediente in dolci, creme, torte salate, condimenti. 

 

 

 

 

Insalata con il formaggio di capra

 

L’insalata di stagione è sempre la risposta giusta. Se si vuole andare oltre le due fette di pomodoro, le due foglie di lattuga e i due tristissimi chicchi di mais in scatola vero è che ci si può mettere un po’ di tempo a scegliere e preparare tutti gli ingredienti. Ma è un tempo rilassante, che allontana, se ce n’è bisogno, dallo stress quotidiano. Sbucciare, lavare, affettare, mescolare, condire e poi comporre, direttamente sui piatti, sistemando le verdure secondo i colori o le consistenze può avere il suo effetto terapeutico. Attivare le mani e la fantasia fa bene.

 

Come sempre quando si tratta di insalate non indico le quantità: bisogna andare a occhio. Aggiungi più di un ingrediente amato e meno di uno di cui non sei troppo sicuro; condisci un po’ di più perché poi vuoi fare scarpetta con il pane, o di meno perché in questo periodo cerchi di limitare l’olio; ti è rimasto solo mezzo ciuffo di insalata ma hai sedici barbabietole da usare, non hai il limone e vuoi usare l’aceto di mele: sì, va bene tutto. L’importante è mantenere un certo equilibrio.

 

 


Insalata verde (lattuga o simili)

barbabietola

zucca

funghi coltivati

ravanelli

mela acidula

briciole di pane

 

yogurt

aglio

olio extravergine di oliva

sale

pepe

succo di limone

za’atar o timo fresco

 

formaggio di capra (fresco e morbido o come preferite)

 


Mondate e sbucciate le barbabietole. Fresche e integre, altrimenti sanno troppo di terra. Affettatele se sono piccoline o fatele a dadini se sono più grandi. Riunitele in una ciotola e conditele con olio, un pizzico di sale e succo di limone. Fate riposare mentre preparate le altre verdure. 

 

Mondate, lavate e affettate i ravanelli.

 

Mondate, sbucciate e tagliate la mela a dadini, riuniteli in una ciotolina e bagnateli con qualche goccia di succo di limone perché non anneriscano.

 

Mondate l’insalata, lavatela e asciugatela. Dividete le foglie piccole dalle grandi e spezzettate queste ultime.

 

Mondate la zucca eliminando scorza e semi, tagliatela a bastoncini e arrostitela in una padella con olio e aglio (intero, a fettine, grattugiato, come preferite). Deve essere ben cotta e ben abbrustolita. Tenetela da parte.

 

Mondate e lavate i funghi coltivati; io ho usato dei cremini, ma vanno bene anche gli champignon bianchi, o i cardoncelli. Riduceteli a pezzetti irregolari e fateli saltare nella medesima padella dove avete cotto la zucca aggiungendo un po’ d’olio (e altro aglio se vi piace). Condite all’ultimo con un po’ di za’atar o del timo. Niente sale. Tenete da parte.

 

Sempre nella stessa padella fate tostare le briciole di pane aggiungendo olio e mescolando continuamente per evitare che si brucino. 

 

In una ciotolina versate lo yogurt e conditelo con sale, pepe, olio e za’atar o timo. 

 

Tagliate qualche fetta del vostro formaggio di capra preferito. Io ne ho usato uno fresco e morbido, ma se ne avete un più stagionato e lo volete fare a dadini va bene ugualmente. 

 

Ora prendete i piatti e sistemate tutte le verdure come preferite. Io non mescolerei, le lascerei lì, ognuna per sé, ognuna da scoprire. Riguardo alle barbabietole, fate come preferite: scolate i dadini, oppure aggiungete tutta la marinatura di quel bellissimo colore. 

 


In ultimo cospargete di briciole croccanti e di yogurt facendolo cadere a gocce da un cucchiaino. Un giro d’olio a completare.

 

Adagiate le fettine di formaggio sopra tutto e servite. 




Biscotti panna, vaniglia e nocciole

 

Non sono mai stata una grande intenditrice di tè, ma l’ho bevuto, senza troppo entusiasmo, per tutta la vita adulta; quante volte mi sarà uscito un yes, please di pura cortesia alla fatidica would you like a cup of tea? rimediando il più delle volte una terribile ciofeca? 

 

Per un certo numero di anni ho infuso, utilizzando una delle teiere della mia collezione, esclusivamente tè Darjeeling (indiano) nella versione “tè nero semplice”, non in quella ossidata. Mi perdonino i cultori per il linguaggio approssimativo… Comunque, in seguito ne ho perso un po’ il gusto e ho quasi completamente smesso di berlo, fino a che non ho scoperto il tè Oolong! Una rivelazione. 

 


Il tè Oolong viene anche chiamato “tè blu”; proviene dalla Cina o da Taiwan ed è particolarmente pregiato. Le foglie vengono sottoposte a un processo di essicazione e ossidazione naturale, trattate poi con una fonte di vapore caldo per essere infine arrotolate a mano. E questo in generale; poi alcune varietà vengono leggermente affumicate, altre tostate, altre subiscono più volte trattamenti termici. Le più rinomate sono circa una ventina - che coprono un enorme range di prezzi - e, se a Taiwan, allora Formosa, la coltivazione di tè iniziò solo nel XVIII secolo, sui monti della regione del Fujian, nel sud-est, della Cina la tradizione di questo particolare tipo di tè è millenaria. 

 

Il tè Oolong si utilizza sempre sfuso (non credo ne esistano bustine già pronte) perché a contatto con l’acqua calda le foglie, che, da secche, appaiono come granelli e palline di color grigioblu con sfumature verdi… riprendono la loro forma e dimensione originale e fluttuano nell’acqua rilasciando tutto il loro profumo e un gusto leggero, fruttato. Le foglie possono essere usate due o tre volte nel corso della giornata per seconde o terze tazze di tè. E non è un modo per risparmiare, eh! È una ben consolidata tradizione. 

 

Tutto questo per dire che, ogni tanto, con il mio tè Oolong del pomeriggio ci vorrei dei biscotti, soprattutto in inverno, quando tanto ormai fuori è buio, Giovedì e io abbiamo fatto la nostra camminata e l’unica cosa che vogliamo è rintanarci in cucina. Biscotti semplici. E mi tocca farmeli in casa. Lo so, lo, mi sembra di sentire la mia amica Paola: “guarda che ce ne sono di buoni anche in negozio”. Sicuramente è vero, ma, visto che la voglia mi viene non più di quattro, cinque volte l’anno, continuo a farmeli in casa. Questi qui sono alle nocciole, panna e vaniglia. In pratica ci ho messo tutto quello che mi piace, escluso il cioccolato che con il tè no, proprio no.

 

Per un tot di biscotti secondo la forma che scegliete (rettangolari circa 30)

 

225 g di farina di grano tenero tipo 0

120 g di burro fresco

70 g di zucchero di canna

50 g di amido di mais

25 g di farina di nocciole

1 uovo

4 cucchiai di panna fresca

5 g di lievito per dolci

¼ di bacca di vaniglia

1 pizzicone di sale

 

semi di sesamo - facoltativi

 


Togliete il burro da frigorifero con un certo anticipo. Lasciatelo ammorbidire un po’ e intanto pesate e preparate tutti gli altri ingredienti.

 

Passate lo zucchero al mixer e, azionandolo a scatti, ricavatene uno zucchero-di-canna-a-velo.

 

Setacciate la farina insieme all’amido di mais e al lievito.

 

Battete l’uovo in una ciotolina con la panna, il pizzicone di sale e l’interno del pezzetto di bacca di vaniglia (apritela con un coltellino e raschiate il contenuto).

 

Ora riprendete il burro e lavoratelo in una ciotola con lo zucchero usando una marisa di silicone finché non avrete un composto della consistenza di una pomata. Aggiungete il battuto di uova e panna e mescolate bene fino a che non sia assorbito.

 

Aggiungete ora la farina poco per volta, ri-setacciandola. Il composto inizierà a prendere consistenza. Per ultima unite la farina di nocciole. 

 

Per farina di nocciole si intende, come per quella di mandorle, semplicemente i frutti tritati fino ad avere una sorta di “farina”. Se la fate in casa sgusciate le nocciole, stendete su un foglio di cartaforno e tostatele sulla griglia del forno ben caldo a mezza altezza per pochi minuti. Quindi estraetele, pulitele strofinandole con un canovaccio per eliminare il più possibile della pellicina, lasciatele raffreddare completamente, infine passatele al mixer, azionandolo a scatti e aggiungendo un pizzico di zucchero.

 

Lavorate ora con le mani fino a formare una palla di impasto liscio e compatto. Lasciatelo riposare in frigorifero per almeno tre ore, o, meglio ancora, per tutta la notte.

 

Togliete l’impasto dal frigo, sistematelo al centro di un grande foglio di cartaforno e lasciatelo riambientare una mezzoretta, intanto accendete il forno e portatelo a 170° e rivestite una placca forata di cartaforno. Stendetelo con il matterello leggermente infarinato allo spessore di 6, 8 millimetri. Ritagliate i biscotti con la forma preferita. Io ho scelto un comune rettangolo per comodità: in questo modo ho cotto tutti i biscotti con una sola infornata. 

 

Dopo aver ritagliato i biscotti, recuperate i ritagli di pasta, manipolatela velocemente e poi ristendetela con il matterello e procedete a ritagliare altri biscotti. Mi raccomando: avanzi zero. 

 

Se avete deciso di usarli, questo è il momento di cospargere i vostri biscotti (tutti, metà, un quarto…) con i semi di sesamo. Fateli aderire pressando dolcemente con i polpastrelli.

 


Disponete i biscotti sulla placca rivestita di cartaforno, sistemate quest’ultima sul ripiano centrale e cuocete a 170° per 15 minuti al massimo. Controllate a vista il grado di doratura della superficie.

 

Spegnete il forno, aprite parzialmente lo sportello e fate riposare i biscotti un quarto d’ora, poi sfornateli e preparate il tè. 

Insalata mista. Parola d'ordine: osare

 

Ma si può scrivere ancora qualcosa che non sia stato scritto per introdurre un’insalata? Io credo di aver detto tutto. Una cosa, secondo me, però serve sempre dire: bisogna osare! Usare la fantasia e osare. L’insalata è una palestra fantastica per allenare la fantasia senza spendere un botto e senza sporcare tremilacinquecentoquarantacinque pentole e padelle.

 

Vedete, ho un’amica cara e diverse conoscenti che, nel vedere le foto di ciò che cucino, hanno spesso reazioni di vera sorpresa e il loro commento passa dal non ci avrei mai pensato al io non avrei il coraggio... Eppure sono persone colte, che hanno viaggiato, che leggono, che si informano. Ma davanti a un accostamento di ingredienti “insolito” vanno in confusione; non riescono ad aggiungere una pagina – o anche solo un piccolo paragrafo –  al loro personale catalogo della cucina. Quel piatto è così perché me lo ha insegnato mia mamma, perché l’ho sempre cucinato così, perché… si fa così. Attribuiscono l’originalità all’esotico, all’etnico, “all’altro” insomma, e non la concepiscono tra le proprie mura domestiche. Oppure la ammirano alla tavola del ristorante, delegando alla professionalità del cuoco l’onere della creatività.

 

Ma chi l’ha detto?! La tradizione è una meraviglia: tutti amiamo certe ricette e vogliamo ritrovarle uguali a sé stesse ancora e ancora durante le feste, la domenica, in trattoria, chessò… a Natale. E, di contro, tutti amano essere stupiti al ristorante. Ma non è noioso replicare nel quotidiano sempre i medesimi schemi? O reprimere un moto di fantasia solo perché “a casa non ne vale la pena”? Non è più divertente – e mi spingo a dire salutare, visto che la varietà fa solo bene nella dieta di chiunque – provare? creare? anche azzardare?

 

Vero: si può sbagliare. Assolutamente sì. Ma è veramente difficile che alla fine il piatto sia completamente immangiabile. Magari non sarà esattamente come avevamo immaginato, ma tanto da finire diritto nella spazzatura no, dai! E non c’è bisogno di usare ingredienti preziosi come tartufi bianchi, caviale beluga, melone Yubari; basta andare al mercato più vicino con un portamonete.

 

La quantità di una spezia, un contrasto dolce-salato o caldo-freddo possono essere non perfetti: la prossima volta farete meglio, nel frattempo prendete appunti e chiedete pareri alle persone che mangiano con voi. Che, a meno che non abbiate cattive frequentazioni, non vi toglieranno il saluto e non vi ameranno di meno per un’insalata un po’ strana.

 

Dopo questa divagazione largamente inutile torniamo all’insalata di oggi, per la quale come solito non darò quantità precise. Regolatevi secondo preferenze, fame e disponibilità.

 


Cavolo cappuccio rosso

carote

barbabietole

ravanelli

uova

 

yogurt

olio extravergine di oliva

sale

zucchero di canna

pepe

melassa di melagrana

 

 

Mondate il cavolo cappuccio eliminando le due o tre foglie più esterne, dividetelo in due e affettatelo sottile sottile con un coltello grande ben affilato. Lavatelo accuratamente e stendetelo ad asciugare su carta da cucina.

 

Mondate le carote, sbucciatele, lavatele e grattugiatele con una grattugia a denti larghi. Io ne uso una da appoggio con cinque lame diverse di Microplane che trovo fantastica e utile per ogni evenienza.

 

Mondate le barbabietole e i ravanelli, sciacquateli e affettateli fini.

 

Lessate le uova per 13 minuti, sgusciatele e tagliatele in due.

 

Mescolate lo yogurt con olio, sale, pepe, zucchero.

 


Sistemate le verdure nella ciotola (meglio una per ogni commensale), aggiungete le uova, condite facendo cadere lo yogurt a gocce, completate con un filo di melassa di melagrana e decorate con quello che avete, tipo due barbette di finocchio, due foglioline di menta…

 

 

 


Christmas pudding inspiration

 

L’altro giorno ho visto un post di Jamie Oliver sui social. In realtà ne vedo molti; mi diverto a vedere questo ragazzone che mischia tutto con le mani e buca lo schermo con i suoi deeeliciuos, faaaantastic, super flaaavoooour, loooovely, beauuuutifulll… e, a volte, se ne esce con ricette davvero interessanti, oppure con qualche trucchetto effettivamente utile. Se avete tempo date un’occhiata ai suoi canali social e poi ditemi.

 

Comunque era per dire che l’altro giorno il suo post era incentrato – essendo la prima domenica dell’Avvento 2023 – sul Christmas Pudding. Il Christmas Pudding è quella “cosa” tipica del Natale anglosassone che chiunque l’abbia assaggiata non può dimenticare. Non è una torta, non è un pane dolce, è di più, è… troppo. È una tradizione natalizia di origine medievale che è sopravvissuta per secoli, quando la festa era probabilmente l’unica occasione per la stragrande maggioranza delle persone di mangiare qualcosa di dolce, di ricco. Se in origine era una torta rustica (ma rustica, eh, roba che per impastarla si usava il grasso di rognone di agnello) impreziosita quasi solo da prugne e qualche acino di uva salvati dall’estate e fatti seccare, man mano si è arricchito di frutta secca, canditi, zuccheri e spezie provenienti dai possedimenti coloniali.

 


La particolarità di questo dolce è che si preparava con un anticipo davvero enorme. Oggi, come diceva Jamie, chi vuol rispettare la tradizione lo impasta la prima domenica di Avvento – ovvero solo un mese prima di Natale – una volta i tempi erano di tre o più mesi prima. Anzi, era più apprezzato quanto più “invecchiato”. E si spediva. Oh, sì, si spediva, con la posta (impeccabile posta di Sua Maestà) ai parenti lontani.

 

Anche per questo dicevo che se qualcuno ha assaggiato un Christmas pudding tradizionale difficilmente lo dimentica. Ma non solo. Indimenticabile è il profumo. Avete presente quando trovate un odore piacevolissimo, ma se pensate di addentare il cibo corrispondente vi si chiude lo stomaco? A me capita con la cannella e i semi di finocchio: ne amo l’aroma, ci tuffo il naso dentro, mi piace sentirlo sulle dita dopo averli maneggiati, ma se me li immagino sul palato… fuggo. Il profumo del pudding mi fa questo effetto: lo adoro, ma non lo voglio mangiare.

 

Ecco, quindi ho pensato a una torta semplice semplice, ma che fosse profumata. Di zucchero, di spezie. Di mele, di ciliegie. Anche per questo ho scelto il pepe di Sichuan (la scheda in fondo alla ricetta) e il Maraschino che è sicuramente un po’ fuori moda, ma è impareggiabile quanto a profumo.

 

Procedimento facilissimo. Ricordate di usare il forno in modalità non-ventilata.

 


Per un dolce da 20 centimetri

 

500 g circa di mele (più o meno 3 di medie dimensioni) non troppo dolci

200 g di farina di grano tenero tipo 0 + un pizzico per la tortiera

120 g di zucchero muscovado + 1 cucchiaino da caffè per il mortaio + ½ cucchiaio per la finitura

100 g di burro + altri 5 grammi circa per la tortiera

100 g di uva passa

3 uova intere

½ limone bio scorza e succo

2 cucchiai di panna fresca

1 bustina di lievito per dolci

1 pizzicone di sale

 

Maraschino o altro liquore simile – 3 cucchiai

polvere di barbabietola – 2 cucchiai

noce moscata – ½ cucchiaino grattugiato al momento

cannella in polvere – ½ cucchiaino

zenzero in polvere – ½ cucchiaino

pepe di Sichuan – ½ cucchiaino di bacche da pestare al momento nel mortaio

 

Procedimento facilissimo sì, ma ci vuole un minimo di organizzazione perché gli ingredienti sono parecchi. Cominciate con il mettere a bagno l’uva passa in una ciotola con acqua tiepida e un cucchiaio di Maraschino e lasciarla in ammollo per circa mezz’ora.

 

Grattugiate con la grattugia più fine che trovate la scorza del limone ben lavato. Magari non tutta, ma almeno metà.

 

Poi mondate e sbucciate le mele con un pelapatate. Dividetene due in 8 spicchi e poi affettateli fini fini, magari usando una piccola mandolina. Raccogliete il tutto in una ciotola e bagnate con succo di limone e un po’ di Maraschino. Aggiungete la scorza di limone.

 

La terza mela tagliatela a metà e poi a fettine sottili, che dovete bagnare subito con limone e Maraschino perché non anneriscano. Tenetela da parte fino all’ultimo.

 


Ora pestate nel mortaio il pepe di Sichuan con un cucchiaino di zucchero fino ad avere una polvere abbastanza fine. Grattugiate la noce moscata.

 

Intanto pesate tutti gli altri ingredienti. Mescolate la farina con il lievito e tutte le spezie, più la polvere di barbabietola e il pizzico di sale.

 

Sciogliete tutto il burro a fuoco dolcissimo. Prelevatene un pochino con un pennello e ungete bene – fondo e bordi – una tortiera del tipo apribile da 20 centimetri (n questo modo la torta diventerà alta almeno 6 centimetri), poi infarinatela e scuotete la farina in eccesso. Aggiungete infine la panna al burro e mescolate.

 

Accendete il forno e portatelo a 180° in modalità non-ventilato.

 

Scolate l’uvetta e strizzatela, distribuitela su un foglio di carta da cucina perché si asciughi un po’.

 

Ora che è tutto pronto montate le uova intere con lo zucchero utilizzando le fruste elettriche o, se l’avete, la planetaria con l’apposito attrezzo (che sapete voi che l’avete) fino a ottenere una spuma chiara e ariosa. Aggiungete il burro sciolto con la panna, non più caldo, e mescolate con una marisa di silicone.

 

Aggiungete le polveri poco per volta setacciando accuratamente e amalgamando dolcemente.

 

Unite le uvette. Unite le mele affettate fini scolandole bene, ma senza stare ad asciugarle.

 

Versate il composto nella tortiera; livellatelo scuotendo e battendo la tortiera. Riprendete la terza mela e sistemate le fette a raggera infilandole di taglio sulla superficie della torta, così come vedete nella foto. Spingete un pochino, ma non fatele affondare. In realtà il composto sarà molto denso, quindi non dovrebbe succedere comunque. Spolverate la mela con un po’ di zucchero.

 

Infilate la torta in forno sul ripiano centrale.

 

Cuocete a 180° in modalità non-ventilato per 40 minuti. Poi, per altri 10 minuti, trasferite la torta sul ripiano più basso. Spegnete il forno, aprire poco poco lo sportello e fate riposare la torta per almeno 15 minuti. Poi potete sfornarla. Fatela comunque raffreddare completamente prima di toglierla dallo stampo.

 

Per servirla? Così com’è, con panna fresca leggermente montata non zuccherata, oppure crema inglese, ma anche gelato alla crema.

 


Il pepe di Sichuan non è pepe. Ha un gusto e un profumo fiorito buonissimo e non è piccante, ma semplicemente le bacche – che vengono aperte, diciamo… sbucciate prima di essere usate –somigliano moltissimo a quelle del pepe e per questo ha diversi nomi (tutti fuorvianti): pepe fiorito, fiore di pepe, pepe-limone, pepe di montagna, pepe cinese, anche pepe giapponese… In realtà è la bacca di una pianta, la Zanthoxylum, della famiglia delle rutacee, nome volgare Fagara, originaria effettivamente della provincia cinese del Sichuan e utilizzata, probabilmente da millenni, non solo in cucina, ma anche nella medicina tradizionale. Nella cucina cinese entra a far parte di diverse miscele di spezie, a volte insieme a peperoncino, zenzero o anice stellato. Il pepe di Sichuan è molto apprezzato anche in India e in Giappone, dove si usano anche le foglie essiccate. In genere si usa per aromatizzare le carni, soprattutto pollo, anatra e maiale. Io personalmente lo trovo delizioso nei dolci in generale e nelle creme in particolare. Si deve comunque pestare o macinare al momento perché dia il meglio di sé, per poi, eventualmente, mescolarlo alle altre spezie.


Cannella (crema pasticciera alle castagne con)

 

Cinnamomum Zeylanicum o Verum è l’albero della cannella. Come suggerisce il nome, il suo luogo d’origine - e ancor oggi maggior produttore - è lo Sri Lanka, un tempo Ceylon (Zeylan). Esiste anche il Cinnamomum Aromaticum, o cassia, o cannella cinese, originaria appunto della Cina sud-occidentale e oggi coltivato in molte zone tropicali.

 

Sono piante molto simili, della stessa famiglia, quella delle Lauracee come il comune alloro, ma dalla prima si ricava una spezia pregiata dagli impieghi gastronomici d’eccellenza per cui molti poveretti nel corso dei secoli hanno perso la vita; la seconda è un degno surrogato, molto più economico e molto più disponibile, rimasto sconosciuto fino a tempi relativamente recenti. Ma con delle qualità medicinali più spiccate, sebbene entrambe abbiano ottime proprietà antiossidanti, antimicotiche, antibatteriche e la capacità di abbassare colesterolo e trigliceridi, oltre che, pare, a rallentare alcune malattie neurodegenerative.

 

Tutte e due le cannelle sono da sempre utilizzate nelle rispettive medicine tradizionali locali. Entrambe si presentano come dei rotolini legnosi; è infatti da rametti e radici che si ricava la spezia, che viene il più delle volte venduta già macinata. Non è direttamente la corteccia, simile a un sottile strato di sughero, ma la pellicola immediatamente sottostante.

 


Detto questo è assai probabile che le aromatiche nuvolette che si sprigionano da cioccolate, vin brulè, ginger bread e dolcetti vari del periodo natalizio siano espressione della cannella cinese. 

 

La cannella vera ha una storia molto lunga per noi. La conoscevano già i Romani che frequentavano il porto di Muziris in India, nel Kerala (gli mancava tanto così per arrivare direttamente a Ceylon…) che non a caso era noto come il “porto delle spezie”. I Romani non ne colsero mai gli usi gastronomici e usarono sempre la cannella come medicinale e per usi rituali. Tra la caduta dell’Impero romano d’Occidente e l’anno Mille la cannella scomparve quasi completamente sia delle farmacie sia dalle cucine europee: allora era il pepe la spezia più richiesta.

 

Fu di nuovo oggetto di interesse con l’arrivo dei chiodi di garofano e dello zucchero di canna con i quali formava un terzetto formidabile. Nel XV secolo, come noto, furono i portoghesi a spingersi nuovamente via mare verso Ceylon; Vasco da Gama (de Gama è la forma spagnola che il nostro non avrebbe apprezzato) fu il primo che riportò un carico intero di cannella dal suo primo viaggio in India tra il 1497 e il 99 con un successo pazzesco. Pagò all’origine 3 ducati per ogni 50 chili di cannella che rivendette a Lisbona per 80. Inutile dire che un simile risultato spinse all’organizzazione di dodici spedizioni nei dieci anni seguenti, tenendo conto che ognuna durava dodici mesi.

Quello che accadde dopo è storia; lotte, liti, guerre, divisioni arbitrarie del mondo; il trattato di Tordesillas; la comparsa degli olandesi (avete letto La maledizione della noce moscata di Amitav Ghosh, uscito per Neri Pozza nel 2022? Terrificante.) che soffiarono il primato a portoghesi e spagnoli con una facilità sbalorditiva; la “conquista” delle Molucche con tutte le loro spezie - noce moscata in particolare - con guadagni del 400% sull’investimento iniziale; la pirateria degli inglesi per tutto il XVII e XVIII secolo…

E nel frattempo la cucina europea cambiava. O, meglio, cambiava quella francese, il che all’epoca era la stessa cosa, e si tornava ai sapori “veri”, alle “verdure che sanno di verdura”, limitando l’uso delle spezie, cannella compresa, allo stretto necessario. Tanto che nemmeno il caro Dumas, nel suo Grande dizionario di cucina la usa, limitandosi a preparare un’acqua aromatizzata e due caramelle. E la cannella, pur rimanendo una spezie di alto livello, preziosa, al contrario del pepe che divenne appannaggio anche delle classi più basse, fu destinata ai mix per i dolci, per aromatizzare il vino caldo e nel bouquet detto quatre épices. Resistettero gli inglesi con il loro cannella+chiodi+macis destinato a pudding dolci e salati e agli arrosti.

Diversissima la situazione sul fronte orientale. La cannella non è mai venuta meno, non ha mai seguito la moda, non ha mai cambiato valore perle cucine del Medio Oriente, Nord Africa e India. Era ed è indispensabile per i garam masala, per alcune tarka, per il baharat e il ras el hanout.

Comunque è innegabile che il profumo di cannella faccia subito inverno, Natale… Io la uso pochissimo da sola: amo il suo profumo, molto meno il sapore, quindi raramente la aggiungo a ciò che cucino - se non, appunto, mischiata ad altre spezie nei mix di cui parlavamo qui sopra - o ai dolci che preparo. Con questa crema (pasticciera) alle castagne ho ceduto. Mi sono detta: facciamola natalizia, via! 

 

Procedimento classico della crema pasticciera e ingredienti standard (latte, tuorli, zucchero di canna e un po' di farina), con l'aggiunta di castagne lessate, tritate e passate al setaccio. La cannella sopra, puf!, come una nuvoletta. 

 

 

 

Alloro: sempre a portata di mano

 

L'alloro (Laurus nobilis), della famiglia delle Lauracee, è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo e oltre; è un albero sempreverde che può essere alto anche quindici metri con la corteccia liscia di un caratteristico color verdegrigionerastro, a sua volta profumata come le grandi fogli scure, coriacee, lucide sopra e opache sotto.

 

I frutti sono delle drupe nere, piccole e brillanti, che appaiono da ottobre dopo una abbondante fioritura (sempre profumata) di piccolissimi fiori bianco burro/giallo chiaro. È una pianta molto rustica, che si adatta a tutti i climi, che si diffonde facilmente sia producendo numerosi polloni – fino a formare dei veri e propri boschetti – sia dai semi contenuti nei frutti e diffusi dagli uccelli.

 

L’alloro è amato da sempre per i suoi usi culinari: innumerevoli i piatti in tutte le tradizioni, da nord a sud in Italia e in tutto il bacino del Mediterraneo, in cui appare, tanto che in Sicilia l’alloro è addirittura un Pat (Prodotto agroalimentare tradizionale).

 

E per gli sui cosmetici: con le foglie fresche si fanno impacchi per i capelli; l’olio aromatico estratto dalle bacche è ingrediente tradizionale del rinomato sapone di Aleppo dal profumo inconfondibile; dai frutti freschi si ottiene il cosiddetto burro di alloro usatissimo per profumi e saponi.

 

Inoltre è insettifugo: le foglie in armadi e dispense tengono lontani tarme e altri insetti (è assolutamente vero). E ha anche usi medicinali: le foglie e i frutti sono ricchi di vitamina A, B6, C, niacina, riboflavina, calcio, potassio, fosforo, magnesio, ferro, zinco, selenio. I decotti si usano da sempre per aiutare la digestione. 

 

 

 

Senza contare i significati simbolici. L’alloro, ritenuto immortale per il suo manto sempreverde, è pianta sacra ad Apollo – e qui, come sempre, c’è dietro una storia torbida che coinvolge una ninfa, un giovinetto e Dioniso in stato di (grave) ebrezza – e simboleggia sapienza, gloria, il primeggiare in guerra così come nella cultura. La Pizia (sacerdotessa di Apollo) masticava e bruciava foglie di alloro prima di esprimere i suoi vaticini.

 


I Romani continuarono la tradizione cingendo di alloro la testa dei vincitori… di più o meno qualsiasi cosa: che vincessero quello che volevano, purché primeggiassero. Più tardi, nella cultura cristiana l’alloro mantenne la sua simbologia di immortalità, di resurrezione, di rinnovamento, tanto che i martiri si avviavano verso il loro destino stringendo rametti di alloro o cingendosi il capo con una coroncina di foglie. E questo simbolismo resiste rendendo l’alloro (anche) una pianta legata ai riti di commemorazione dei defunti.

 

 

 

Ma in tutte le culture, persino in quelle nordiche e dell’Estremo Oriente, l’alloro ha qualche significato o funzione che va oltre la cucina: in alcune regioni si pensava che l’alloro fosse immune da fulmini e potesse proteggere le case dalle tempeste. Da qui l’usanza di piantarne almeno un esemplare vicino all’orto e di tenerne sempre dei rami presso il camino in cui gettarli al primo rombo di tuono. Nel feng shui (arte geomantica cinese) l’alloro è una pianta portafortuna, capace di portare serenità nella casa e, in generale, in Cina, c'è la credenza che sulla luna ci sia un albero d’alloro alto milleseicentosessantacinque metri che, se disgraziatamente fosse abbattuto, ricrescerebbe immediatamente.

 

Ma, alla fine, che dire? Al di là dell’utilità e dei simboli gli allori sono alberi bellissimi, eleganti, ospitano un sacco di nidi perché le foglie sono sempre lì e sono fitte; sono alberi grandi, ma non imponenti; danno ombra ma non sono mai incombenti e risuonano con il vento. È rilassante andare in giardino o in campagna a raccogliere i rami più giovani per conservarne le foglie che, anche da secche, profumano sempre. Farne mazzetti e piccole ghirlande aiuta a conservarle.