La Grammatica dei
sapori e delle loro infinite combinazioni,
Niki Segnit, Gribaudo
2011
L’autrice
del libro è la giornalista inglese Niki Segnit, quindi è necessario fare la
tara al pittoresco con cui impregna le descrizioni di Toscana, Roma o Venezia;
chiudere un occhio sul fatto che definisce lo Speck Alto Adige “un prosciutto”;
evitare di seguire il consiglio di fare un pic nic a piedi nudi sulle spiagge
del Suffolk a maggio, riscaldati solo da una bottiglia di Chablis...
ghiacciato.
Fatte
queste marginali precisazioni, La Grammatica dei sapori e delle loro infinite
combinazioni, edito in Italia da Gribaudo, è un gran bel libro. Non è nuovo
poiché l’edizione originale – The flavour thesaurus, Bloomsbury Publishing – è
del 2010, ma io l’ho scoperto solo un paio di settimane fa girellando da Gogol
& Co.
Il volume è
pensato come un vero e proprio catalogo degli accostamenti in cucina; la prima
pagina mostra una sorta di grande torta a fette colorate che rappresentano i
sapori fondamentali, suddivise in spicchi più piccoli che illustrano i cibi che
li esprimono. Per esempio: nei sapori
“fruttati fioriti” ci sono fico, rosa, mirtillo; tra gli “speziati” cannella,
noce moscata e pastinaca tra i “sulfurei” broccolo e aglio e così via.
Di seguito,
ogni singolo elemento, nel suo specifico capitolo, è accostato a tutti gli
altri indicando pregi e difetti del loro possibile o impossibile matrimonio. Si
parla delle sfumature gustative e pratiche (la difficoltà, per esempio, di
trovare un certo frutto alla giusta maturazione e i consigli per capire come
riconoscerla). Si illustrano le ragioni storiche, geografiche, sociali per le
quali un certo accostamento di sapori è buono, cattivo, raffinato, grezzo,
consigliato o meno. Si parla di affinità chimiche tra gli alimenti, ovvero
quali stanno bene insieme perché condividono i medesimi elementi, anche se
sintetizzati diversamente.
Si citano
ristoranti dove certe vette di “accostabilità” tra i cibi vengono raggiunte con
anni di esperienza, arte e genialità; ma si parla pure di cucina tradizionale
anglosassone o esotica, come quelle di Tailandia, India, Giappone, Messico,
Brasile, Italia.
Certo, a
volte la signora Segnit sparge un po’ troppo Parmigiano sui piatti italiani che
in effetti non lo richiedono affatto e ignora completamente tradizioni
culinarie come quella pugliese, siciliana o sarda, ma, ovviamente, nessuno può
sapere tutto di tutto e quello che scrive
- con competenza - è davvero molto e molto interessante.
Non mancano
le ricette, descritte brevemente e dando per scontato che il lettore sia
appassionato ed esperto del lavoro ai fornelli; ci sono ricette tradizionali,
ci sono invenzioni personali e ci sono ricette alla moda. Si impara quindi a
gustare insieme - e le ragioni per farlo
- cacao e barbabietola, ostriche e maiale, rosmarino e anguria e a farsi uno
schema mentale tutto nuovo in previsione di un viaggio in Oriente, ma anche
nell’estremo nord della Scozia.
Fedele alla
linea di (quasi tutti) i giornalisti inglesi, Niki Segnit aggiunge note che strappano
più di un sorriso; il che per un libro che parla di cibo e cucina non è male.
Il nuovo nel piatto,
Giulia Visci,
Ponte alle Grazie 2012
Da qualche
anno nella maggior parte delle città si sono moltiplicati i negozi di
alimentari dove trovare alcune specialità che, con un termine un po’
approssimativo, possiamo chiamare etniche.
Anche per la grande distribuzione è diventato ormai abituale riservare uno
scaffale a salse, preparati e spezie espressione di culture gastronomiche
lontane. Nei centri più grandi le possibilità di trovare cibo esotico sono
maggiori, grazie alla presenza di comunità di immigrati più vaste e meglio
adattate; è più facile trovare anche ingredienti freschi come formaggi, frutta
e verdure, visto che, con un il pubblico via via più ampio, è diventato
conveniente importarle.
Nello
stesso tempo i viaggi si sono fatti più frequenti e più facili; sono molti
quelli che si ritrovano in un paese straniero ad assaggiare cibi nuovi che
impressionano e lasciano ricordi e sensazioni che, spesso, si vogliono
rinnovare una volta tornati a casa.
Il libro di
Giulia Visci dal titolo Il nuovo nel
piatto - Ponte alle Grazie 2012 - può essere la guida ideale per
districarsi tra nomi e consistenze particolari, sapori e colori che si
conoscono poco, provenienze e utilizzi inaspettati dei cibi “nuovi”.
In oltre
250 pagine, serissime e senza illustrazioni, vengono passati in rassegna, in
ordine alfabetico, centoventotto ingredienti più o meno esotici e insoliti. Si
dice da dove provengono e dove si usano, se ne danno descrizione e notizie
storico-geografiche e, se serve, un piccolo ritratto botanico; poi si passa a
illustrare le ricette in cui compaiono.
Si va dal
fieno greco (un’erba che viene dal medio Oriente, ma che abita in Europa da
molti secoli) al latte di cocco; dall’assafetida (un’altra erba che proviene
dall’antica Persia) al paneer (un
formaggio diffusissimo in India fatto con caglio vegetale, quindi adatto ai
regimi vegetariani); dal kombucha (un
fungo dalla Cina) al sacha inchi (un
vegetale amazzonico dal quale si estrae un olio ricchissimo di Omega 3); dal rambutan (altro nome del dolcissimo
litchi, proveniente dal Sud Est asiatico) all’umeboshi (un frutto che in Giappone viene conservato in agrodolce e
utilizzato come condimento).
Sono presi
in considerazione, giustamente, anche quei cibi che sono diventati ormai comuni
e che tutti abbiamo usato almeno una volta o che, addirittura, sono diventati
di casa nella nostra cucina, come il cus cus o la feta, o il cavolo cinese.
Abituali sì, ma che possono riservare gradite sorprese; o le cui origini
possono essere approfondite, svelando storie molto interessanti.
Le ricette
proposte, una volta procuratosi l’ingrediente o la spezia, sono tutte
fattibilissime se si ha un minimo di dimestichezza con i fornelli.
La lettura
è sempre piacevole; la scrittura è fluida e le informazioni chiarissime. Una
caratteristica che accomuna tutti i volumi della collana Il lettore goloso di
Ponte alle Grazie, storica, anche se non più indipendente, casa editrice
italiana. Questo libro è proprio “bello da leggere” anche per chi, in effetti,
non avrebbe alcuna intenzione di includere nella propria dieta ghee o tempeh, amasake o goumi, ma che, per esempio, non voglia
farsi trovare impreparato al prossimo invito a cena dall’amica foodie.
Storia del dessert,
Michael Krondl, Odoya, 2011
L’essere
umano è istintivamente portato alla ricerca del dolce; dolce è il sapore del
latte materno e quindi dolce è il primo sapore che (si spera) ogni bambino
sente e ama.
Ed è
significativo che in tutte le lingue esistano dalla notte dei tempi metafore
che alludono al dolce e alla dolcezza per illustrare qualcosa di bello,
piacevole, appagante per ognuno dei nostri sensi.
Ma il
passaggio dal puro e semplice gusto per il dolce – reale o metaforico che sia –
ai prodotti della pasticceria, quella “di casa” così come quella “alta”, è
tutto culturale e cambia da nazione a nazione.
Se è vero
che non abbiamo bisogno specificamente di mousse
au chocolat, di bignè o della torta ai pinoli della zia per sopravvivere,
perché gli zuccheri che servono al buon funzionamento del nostro corpo li
assumiamo con tutto il cibo, è altrettanto vero che una bella cucchiaiata di
crema, o una fetta di torta possono risolvere in positivo una giornata,
regalandoci un momento di piacere e migliorandoci l’umore.
Ecco perché
in tutte le culture, in ogni parte del mondo – quale più quale meno,
principalmente per ragioni climatiche e storiche – esistono i dolci: piatti
dolci, dessert veri e propri, snack, merende, dolci rituali. Ricette alla
portata di qualsiasi massaia si affiancano alle elaborate opere d’arte dei
maestri pasticcieri.
Michael
Krondl, giornalista americano specializzato nel food, accompagna il lettore, nelle oltre 350 pagine del suo Storia
del dessert (Sweet Intention), Odoya
2011, in un viaggio affascinante attraverso la cultura dolciaria di sei luoghi
del mondo: India, Medio Oriente, Italia, Francia, Austria e Stati Uniti.
Il suo
percorso analizza dapprima le materie prime; quindi traccia le attitudini e
abitudini degli abitanti di questi sei luoghi molto diversi tra loro nei
confronti delle preparazioni dolci; poi illustra le ragioni, le mode, le
credenze, le circostanze e le contingenze che hanno portato al diffondersi di
determinate ricette e alla decadenza di altre attraverso i vari periodi
storici.
Fino a
giungere all’oggi, quando i più tremendi orrori dolciari (leggi: merendine,
precotti, preparati, bustine, polverine, aromi artificiali, conservanti di
sintesi...) sono diventati ormai un fattore di quella globalizzazione in
negativo di cui faremmo volentieri a meno.
Una
globalizzazione che non intacca l’arte dei pasticcieri – la quale, anzi procede
spedita verso vette fino a pochi anni fa impensabili – ma rischia però di spazzar
via la supercasalinga torta di pinoli della zia.
Lo stile
del libro è molto piacevole, per nulla accademico. L’autore fornisce tantissime
informazioni utili, racconta aneddoti storici, appaga curiosità e racconta in
breve anche alcune esperienze personali di amante dei dolci. Parla anche di
riviste e manuali di pasticceria storici e traccia brevi biografie di
pasticcieri famosi. Molto puntuale il capitolo che riguarda l’Italia. Da non
sottovalutare inoltre l’amplissima bibliografia in calce al volume, dove sono
elencati testi in varie lingue che dovrebbero trovar posto in ogni biblioteca
gastronomica.
La grande cucina
ottomana. Una storia di gusto e di cultura,
Maria Pia Pedani, il Mulino 2012
Un saggio
che, pur in edizione economica, conta ben 200 pagine: La grande cucina
ottomana. Una storia di gusto e di cultura, il Mulino 2012 di Maria Pia Pedani,
professore si Storia dell’Impero ottomano all’Università di Venezia Ca’
Foscari.
Un’immersione
totale nella storia di un popolo che ha per secoli abitato proprio alla porta
accanto e al quale dobbiamo molto in campo gastronomico (e non solo). Cosa
saremmo senza i sorbetti, senza il riso, senza le melanzane?
Non che
siano, queste, invenzioni degli Ottomani, ma a loro dobbiamo la loro diffusione
in Europa.
Quando gli
Ottomani giunsero in Anatolia e si fusero con il già esistente impero selgiuchide
erano già di religione musulmana e applicavano quindi il principio di divisione
tra ciò che è harām (proibito) e ciò che è halāl (lecito) in campo gastronomico in
un miscuglio di prescrizione religiosa, superstizione e scelte di gusto.
Avevano, appunto, gusti piuttosto rustici, con prevalenza dell’uso di carne e
di yogurt; alcuni cereali, alcuni piccoli animali allevati e nessun tipo di
cibo superfluo come i dolci.
Fu a
Istanbul che giunse, attraverso la Persia, il riso e da lì viaggiò verso tutto
il Medio Oriente, la Valle del Nilo, il Marocco e, infine, giunse a al-Andalus
(la Spagna) e quindi in Italia. Stessa strada seguirono le melanzane, che,
prima di diffondersi in tutta Europa e divenire uno dei frutti più amati della
cucina mediterranea, divennero così popolari a Istanbul da ispirare ben 49
ricette diverse per cucinarle.
Il saggio
prosegue illustrando al lettore come si banchettava alla corte ottomana nel XV
e nel XVI secolo; anni in cui si passò da banchetti regali sì, ma né sfarzosi né
particolarmente abbondanti e consumati in grande silenzio, a una cucina assai
più raffinata e a feste che fecero dimenticare in fretta i costumi frugali.
Con le
abitudini sociali cambiavano anche i piatti serviti a corte; il miscuglio di
razze che cominciava a diventare una caratteristica di questo grande impero “di
confine” influenzava anche la cucina: nuovi territori conquistati significavano
nuove materie prime, nuove nazioni annesse significavano necessariamente nuove
usanze e... nuove prelibatezze. É in questo stesso periodo che si intensifica
esponenzialmente l’uso delle spezie e si moltiplicano i piatti dal gusto dolce.
Nel 1554 è
proprio a Istanbul che viene aperta la prima caffetteria. Il consumo del caffè
fu inizialmente piuttosto malvisto, ma è a questa pioneristica kafvehane
che dobbiamo la
diffusione di questa bevanda, che oggi ci pare così “italiana”.
Sono gli ottomani che, curiosamente, nel XVII secolo si innamorano per
primi del peperoncino piccante proveniente dalle Americhe e ne fanno un
ingrediente fondamentale per la loro cucina, insieme a prezzemolo e menta. E
dalle loro tavole rimbalza nel bacino del Mediterraneo e diviene indispensabile
alla “nostra” cucina.
Uno sguardo attento, documentato e curioso è quello che descrive le cucine
imperiali del palazzo Topkapi che, nel periodo di massimo splendore, arrivarono
a contare 1500 addetti che operavano su 5250 metri quadrati, alle prese con
qualcosa come 10mila pezzi di porcellana ogni giorno. Il sultano era tenuto a
badare alla propria famiglia in senso stretto – che contava di certo numerosi
membri vista l’usanza della poligamia – e all’harem, agli addetti all’harem e
alla casa in generale, ma anche alle guardie, e ai poveri che vivevano
accampati appena fuori del recinto del palazzo. Un apparato immenso,
mastodontico, dispendioso oltre ogni limite, ma, a quanto si racconta, comunque
efficiente e che prevedeva davvero pochissimo spreco.
Il XX secolo si aprì per Istanbul all’insegna di una nuova modernità.
Nacquero le prime scuole di cucina e di economia domestica; si desiderava
cucinare “all’occidentale”, senza ostentazione, senza lusso inutile e con un
occhio alla salute. Fu in questo periodo che comparvero i primi libri nei quali
si parlava di cucina: in precedenza la gastronomia e la cucina erano così
strettamente appannaggio della corte, che non solo non se ne era sentita la
minima necessità, ma il popolo era troppo povero e troppo ignorante per aver
anche solo l’idea di avvicinarsi a un libro di argomento così “frivolo”.
Insomma, un saggio che si legge quasi come un romanzo e che conduce il
lettore appassionato di storia e di gastronomia su un sentiero lungo quasi
mille anni; dai nomadi dell’Eurasia a Marco Polo; da Ibn Baṭṭūṭa a Suleiman il Magnifico, fino a Mehmed V. Dalla carne di cavallo
tenuta a macerare sotto la sella e poi immersa nello yogurt alla sublime
dolcezza del baklava.
Non manca un glossario vastissimo, sia dei termini strettamente
gastronomici, sia di quelli relativi agli strumenti, alle preparazioni e
all’evoluzione della cucina. Infine c’è anche un piccolo ricettario che
illustra preparazioni a base di yogurt, riso, melanzane e carne.
Modica. La storia del suo
cioccolato,
Grazia Dormiente e Giuseppe Leone, Gribaudo 2015
Di questo Modica. La storia del
suo cioccolato di Grazia Dormiente e Giuseppe Leone, edizioni Gribaudo 2015
colpiscono per prima cosa le immagini.
Caratterizzate da un affascinante
bianco e nero un po’ granuloso proprio come il cioccolato di Modica; un po’ datate e forse per questo ancor più
poetiche, sono tutte opera del fotografo Giuseppe Leone che, fin dagli anni
’70, illustra l’isola di Sicilia in modo tutt’altro che scontato.
Consiglio quindi un primo giro
delle oltre centosessanta pagine del libro per gustarsi la bellezza dei
panorami, delle campagne, delle chiese, delle strade e delle facce di Modica;
senza leggere già si apprende molto e si capisce perché questa città fa parte
del circuito delle città barocche Patrimonio dell'UNESCO della Val di
Noto (Ragusa).
Poi, con calma, si devono
affrontare e assaporare i testi dell’antropologa Grazia Dormiente che, in modo
preciso e piacevole, dotto ma assolutamente mai noioso, conducono il lettore a
conoscere cacaos e zuccaro, balata e cicculatti, cannamele
e cubaitari in un sorprendente excursus storico che comincia ben prima
del 1746, anno in cui per la prima volta si parla ufficialmente di “cioccolato
di Modica”.
Passando attraverso gli scritti di
Sciascia e Bufalino, le botteghe che si aprono sui vicoli all’ombra dei
campanili di San Giorgio e San Pietro, il silenzio dei monasteri pieni di
monache operose e il brusio dei salotti delle famiglie ricche di Modica, come i
Grimaldi.
Famiglia che riusciva a spendere
l’equivalente di venticinquemila euro in un anno – e siamo alla fine del XVIII
secolo – per accaparrarsi ottime materie prime e farle lavorare dai migliori
artigiani della città, così da non rimanere mai senza il delizioso cioccolato.
Un interessante capitolo è dedicato
alla coltivazione siciliana della canna da zucchero: esperienza di fine ‘600
conclusasi presto. Un altro affascinante capitolo illustra il lessico legato
alla fabbricazione del cioccolato di Modica; un altro ancora parla diffusamente
delle fabbriche e dei laboratori locali tra XIX e inizio XX secolo. Si conclude
il libro con la bellissima realtà del Museo del Cioccolato di Modica,
inaugurato nel 2014 e gestito dal CTCM (Consorzio di Tutela del Cioccolato di
Modica) i cui membri, a turno, si impegnano a organizzarvi degustazioni e
golosi percorsi sensoriali.
Non mancano, infine, le descrizioni
di come si produce questo particolare tipo di cioccolato; con un procedimento
che i colonizzatori – particolarmente gli ecclesiastici – spagnoli impararono
direttamente dagli Atzechi (veri “inventori” del cioccolato) e portarono nella
Contea di Modica grazie a un legame particolare con la Corona spagnola.
Le fave di cacao venivano lavorate
con particolari pestelli di legno stando inginocchiati davanti a una pietra
basaltica leggermente riscaldata, esattamente come raffigurato negli antichi
bassorilievi messicani; quindi si aggiungeva lo zucchero di canna e, mantenendo
una temperatura mai superiore ai 40 gradi, si otteneva una massa granulosa
aromatizzata con preziosa cannella o vaniglia, nella quale lo zucchero non
arrivava a sciogliersi.
Oggi si lavora direttamente la massa di cacao vergine al
100% e si può utilizzare anche zucchero estratto dalla barbabietola e sono
ammessi aromi diversi e “moderni”, come, per esempio, il peperoncino, ma non il
burro di cacao, né, tantomeno, dolcificanti e aromi artificiali. Rimane
immutato l’irresistibile gusto e assicurato l’altissimo contenuto dei benefici
bioflavonoidi.
A proposito di cucina
mediorientale vi segnalo un libro di qualche anno fa che mi piace
molto e consulto spesso:
Pop Palestine. Viaggio nella
cucina popolare palestinese.
Salam cuisine tra Gaza e Jenin. È di Stampa Alternativa, costa 21 euro e 50 ed è un libro
che vi insegnerà molto più che delle semplici ricette,
fidatevi.
Un altro libro molto bello, che
mi sono regalata per Natale,
è Zaitoun. Ricette e storie della cucina palestinese di Guido
Tommasi Editore, 30 euro,
illustrato, copertina rigida: un
bel tomo anche da tenere nella
vostra libreria di cucina
(se, come me, ne avete una).
Sempre di Guido Tommasi, sempre
30 euro, un altro testo
interessante è Persiana. Ricette dal Medio Oriente e oltre.
I contorni sfumati che la
Persia – un concetto di nazione
molto esteso e dalle vicende
storiche complicate e
gloriose – ha nel nostro
immaginario vengono in questo
libro meglio definiti dal cibo.
Edito in Italia da Bompiani
invece è l’ormai quasi
leggendario Jerusalem di Ottolenghi. Un libro a suo
modo
imprescindibile, ricchissimo di
spunti e di foto stupende.
Andiamo a nord. La nuova cucina del Nord, di
Guido Tommasi Editore è un bel libro illustrato di oltre
250 pagine. Le fotografie sono
luminose e semplici, più
vuote che piene, senza
ambientazioni elaborate.
Trasmettono un senso di rustica
casalinghitudine di cui
personalmente a volte ho
bisogno (vivere immersi nel
colore del Mediterraneo ogni
tanto ubriaca gli occhi). Le
ricette - che sono state
raccolte in Danimarca, Svezia,
Norvegia, Finlandia e Islanda
sono le più varie: dalle
carni alle ostriche, dalle
zuppe di piselli al cordiale di
sambuco e hanno diverse
matrici; alcune sono
supertradizionali, altre
decisamente moderne con il
denominatore comune di essere
preparate con
ingredienti tipici del Nord
Europa, salvo pochissime
eccezioni. Ho fatto mia la
ricetta dei ravanelli in
agrodolce e l'ho personalizzata
usando le rape bianche:
ormai non ne posso più fare a
meno. La trovate qui sul blog.
Tra i molti libri dedicati alla cucina con le erbe
spontanee ve ne consiglio uno scritto da una cuoca svizzera: Meret Bissegger. Una vera esperta, che organizza corsi di raccolta e cucina a Malavaglia, in Canton Ticino: un posto
straordinario, lontano da qualsiasi rotta prettamente turistica. Il testo si chiama La mia cucina con
le piante
selvatiche, è edito dall’editore svizzero
Casagrande
in collaborazione con Slow Food Svizzera.
Non di solo pane si vive, nemmeno durante il Pesach, ci vogliono anche le uova! Non a caso molti piatti tradizionali della cucina ebraica legati al periodo sono a base di questo alimento, come spiega questo libro molto bello e ricco di spunti: Hazana di Paola Gavin edito da Atlante. Vi figurano la ricetta della
frittata alle erbe aromatiche, noci e bacche di crespino; quella di porri e patate novelle; quella con erbette
uvetta e pinoli. Tutte facilmente replicabili con pochi ingredienti (a parte, forse, le bacche di crespino) che dovremmo avere a casa.
Il libro del mese di maggio non poteva essere che a tema fragole, che sono più nel titolo che all'interno,
poiché le ricette con le fragole sono solo tre; il che,
direi, è la media di qualsiasi libro di cucina.
Fragole a merenda, edito da Guido
Tommasi, ha quasi 350 pagine ed è l'opera prima di Sabrine d'Aubergine, nom de plume di una blogger
nota-ma-non-troppo. Di quelle che, mi pare di capire, non aspirano alla comparsata televisiva.
Le ricette sono tutte tranquillamente riproducibili
in una cucina domestica, da chiunque abbia un minimo (davvero un minimo) di dimestichezza con dosi e procedimenti.
Nessuna eccentricità: ci sono brioche, madeleine, muffin, gelatine e crostate, biscotti, torte dolci e salate, scone e meringhe. Le fotografie sono bellissime; semplici, chiare,
curate. Alle ricette si alternano racconti di vita dell'autrice.
Non lo vorreste un orto? Io tantissimo. Mi immagino
le sere di giugno, quando il sole non se ne vuole
andare mai, a
innaffiare, a cogliere, a diradare… Un orto è un
sistema
complesso, un progetto a lungo termine e, oggi,
consumare
prodotti del proprio orto è una scelta consapevole,
un atto
politico e di importanza sociale. Ma è anche una
gran
soddisfazione e la certezza di avere materie prime
di
altissima qualità e varietà per la propria cucina.
Questo
libro, Ortaggi per il giardiniere gourmet, di Simon Akeroyd, curato
dalla Società Orticola di Lombardia per i tipi di Guido Tommasi è una bella guida che unisce l'insegnamento pratico alle notizie storiche; la
curiosità botanica con quella culinaria in una veste grafica bellissima. Non ci sono foto, ma
disegni, molti d’epoca. Ci sono ricette e indicazioni. Lo sapevate che Isabella d’Este andava
matta per l’aglio? La sorella Beatrice, nel 1491, in attesa di una sua vista a Milano dava
disposizioni ai giardinieri di riservare un intero campo alla coltivazione del bulbo per far
felice la sorella maggiore. Un libro che vale la pena leggere, anche per chi non ha sogni a
livello della terra come me.
Verdure golose di Delphine de Montalier, edito da Guido Tommasi non è un libro nuovo, ma di ben dodici anni fa. Pur essendo scritto da una foodwriter e blogger non si perde in racconti
personali – che, posso dire la verità?, a me interessano pochissimo – ma snocciola ricette interessanti e riproducibili per circa duecento pagine. È trattata ogni verdura immaginabile, ci sono belle foto essenziali dei piatti finiti – dove si riconoscono benissimo gli ingredienti – e tanti spunti per insalate, minestre fredde, gazpacho e frullati di verdure con un occhio alla cucina del Medio e dell’Estremo Oriente.
Chiudono il libro le schede tecniche dei vegetali e, cosa interessante, per ogni preparazione calda viene indicata la pentola migliore da usare per il miglior risultato.
Un libro grande, grosso, colorato, divertentissimo. Sembra di tornare bambini sfogliando Infofood di Laura Rowe
(giornalista e foodwriter) edito da Il Castello nel 2015.
Si tratta di una guida inforgrafica al cibo che esplora cibi grezzi, materie prime, ricette e abbinamenti attraverso disegni bellissimi e collegamenti grafici intuitivi, ma sempre
sorprendenti. Il tutto fornendo informazioni precise, dettagli storici e curiosità culinarie e nutrizionali con un occhio alla sostenibilità e al rispetto degli equilibri naturali tra uomo, animali e il loro cibo.
Non so se anche voi cedete facilmente come me al fascino della
linguistica. In caso positivo non fatevi scappare questo testo di Gian Luigi Beccaria. Si intitola Misticanze, è del 2011, ma è ancora disponibile. Una vera miniera di parole bellissime, di
storie e di studi applicati alla cucina e al cibo. Perché si chiamano in quel modo alcune creazioni dei cuochi rinascimentali? Quali parole definiscono i cibi identitari e da dove hanno origine? Il mosaico delle lingue d'Italia e quello - che va di pari passo - dei nomi delle specialità
locali. Circa 200 pagine di piacevolissima lettura.
Questo libro, intitolato Il giardiniere goloso, è inserito nell’ottima collana di Ponte alle Grazie Il lettore goloso, ed è una fonte inesauribile di dritte per coltivare in proprio - quando si possiede un piccolo orto o un bel terrazzo - e
raccogliere, o comunque scegliere con giudizio, per poi trasformare e conservare in tantissimi modi, una miriade di erbe, frutti, verdure, legumi, bacche. Solo per l’uva sultanina ci sono dodici ricette, un numero imprecisabile per i
vari tipi di zucca; ma poi si parla anche di melagrana, di maggiorana, di fragole, di prezzemolo, di mais e di melone, di carota, di carciofo e di cerfoglio; di fave, basilico e
albicocche… Nemmeno una foto, ma oltre trecento pagine fitte fitte grazie al lavoro di Cristina Bay e Gottardo Bonacini. Il libro è del 2008, ma si trova facilmente e non può mancare
in una bella libreria culinaria.
Spezie da tutto il mondo, di Manisha Gambhir – giornalista e food writer indiana, che ha però vissuto in diversi paesi di lingua inglese – edito da De Vecchi è un po’ datato (2002), ma non per questo meno interessante. È pieno di ricette in
cui le spezie non sono solo “un pizzichino”, ma sono vere protagoniste. Diviso per aree geografiche (America, Europa, Africa e Medio oriente, Asia orientale, Asia sud-orientale),
illustra la storia e la famiglia botanica di ogni spezia,
suggerendo le giuste miscele da comprare o da prepararsi in casa e gli abbinamenti migliori con verdure, carni, pesci e dolci. Per esempio… esiste una minestra di zucca nepalese cui si aggiungono curcuma, cannella, cardamomo, zenzero, cumino,
coriandolo, pepe. Non stupitevi: le zucche sono uno dei pochi vegetali che possono
crescere facilmente in tutte le parti del
Nepal, dalle pianure al confine con l’India fino
alle maggiori altitudini ai confini con la Cina.
E dopo tanti libri illustrati, eccone uno fatto solo
di parole.
E che parole! Quelle del celeberrimo scrittore
Alexandre
Dumas padre (1802 - 1870). Un uomo davvero singolare per le sue origini,
l'infanzia non facile, la formazione da autodidatta e l'immenso amore per il cibo e la cucina e, diciamolo... anche
per il suo aspetto. In questo testo, Il grande dizionario di
cucina, edito da Sellerio (prima edizione 2004, due volumi e
oltre 1200 pagine), Dumas esplora e ci ragguaglia da Abavo
a
Zuppa su tuuuuutto ciò che si possa considerare cibo
ai
suoi tempi e nel mondo allora conosciuto; sugli
utensili,
sulle loro storie; sui cuochi. Dove possibile – ovvero in base alla sua diretta
esperienza – fornisce anche ricette interessanti, alcune delle
quali ancora facilmente riproducibili. Altre invece
piuttosto stravaganti, macchinose e
decisamente contrarie a ogni principio
dell'alimentazione corretta. Ma sono cose che si perdonano più che facilmente a un simile erudito
ghiottone, anche perché, di contro, ci possiamo deliziare di aneddoti e citazioni originali
che fanno scorrere le pagine come quelle di un romanzo. Naturalmente ci sono diverse
ricette per cucinare l'oca, ma leggete un po' cosa c'è alla voce aringhe, dopo la
descrizione del pesce, come pulirlo, i risvolti economicie della pesca, alcune
considerazione sui popoli che la praticano e
come usarlo in cucina:
Fino al XVI secolo sopravvisse un'usanza molto
bizzarra tra i canonici della cattedrale di Reims. Il mercoledì santo, al sopraggiungere
della sera, essi andavano in processione,
disposti su due file, alla chiesa di Sain-Rémi.
Ognuno di loro trascinava dietro un'aringa legata a una corda. Ogni canonico si preoccupava di
camminare sull'aringa di colui che
lo precedeva, e, allo stesso tempo, di trarre in
salvo la propria da colui che lo seguiva. Questa usanza stravagante potè essere soppressa solo
abolendo la processione
Un libro che chiunque voglia dire di saper qualcosa
di gastronomia (e dei canonici di Reims) dovrebbe leggere.
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