Melagrana, grenade, Pomegranate, granada, Granatapfel, nar...

 

Dire due parole sulle melagrane e sugli esili alberi che le portano è impossibile. Nel senso che due parole non bastano; bisognerebbe scrivere un libro intero, perché la melagrana ha una storia luuuunga e piena di risvolti interessanti. Io si può dire che abbia scoperto le melagrane a venticinque anni, qui in Sardegna, quando mi sono trovata a raccoglierle, in una splendida campagna settembrina, direttamente dall’albero per farne ghirlande nuziali. Fino ad allora per me erano state frutti un po’ alieni che comparivano giusto giusto a Natale negli ortolani più chic di Milano e che erano più centrotavola e decorazioni che cibo. Insomma, le avevo incontrate più nei libri durante gli studi, che sugli alberi.

 

Intanto, ecco, l’albero. Botanicamente parlando, è il Punica granatum, attualmente – dopo la ormai famosa revisione della classificazione – inserito nella famiglia delle Lythraceae; precedentemente stava tra le Punicaceae in compagnia del solo Punica Protoponica, un alberello – tra l’altro in forte percolo di estinzione – dell’isola di Socotra, in Yemen. Alcuni dicono sia originario delle regioni dell’Himalaya, altri del medio Oriente (nord della Persia/Iran), altri ipotizzano che sia autoctono del bacino mediterraneo. Sta di fatto che esemplari selvatici dalle caratteristiche specifiche vivono in tutte queste regioni e il suo addomesticamento è antichissimo, quindi non si sa bene chi ha cominciato e dove.

 

E sta anche di fatto che il melograno sia un albero parco, di pochissime pretese, resistentissimo alla siccità, ma anche al freddo, adattissimo all’aridocoltura e ad arginare la desertificazione dei territori. E quindi uno di quelli che, potenzialmente, vista la prodigalità con cui elargisce i suoi frutti, ottimi e succosi, ci salverà. Non solo: la sua corteccia ha proprietà medicamentose conosciute da sempre, le membrane che circondano i semi si sono sempre usate per la concia delle pelli e per produrre tinture e inchiostri.

 


I frutti, oltre a essere bellissimi, sono una bomba di vitamine A, C, E, K; di niacina, tiamina, roboflavina; di magnesio, potassio, fosforo, calcio, zinco, ferro e selenio più un sacco di altre cosette meno famose. E 100 grammi di polpa (ed è tanta, mondata dai semi!) hanno in media 63 calorie. La stagione ideale per consumarli è quella autunnale, diciamo da ottobre, anche se alcuni alberi possono essere già carichi di frutti a fine agosto. L’importante è coglierli al momento giusto e, se si coltivano melograni, non serve bagnarli (altrimenti i frutti si fessurano aprendo la porta agli insetti: occhio alle “forbicette”!) ma assicurare loro un po’ di umidità con la giusta pacciamatura, o anche solo sistemando delle pietre porose alla base del tronco.

 

Il succo è acidulo e dolce allo stesso tempo, molto rinfrescante, amato da sempre; ma è il carico di simboli che la melagrana si porta dietro fin dalla notte dei tempi a renderla ancora più interessante. Un frutto rosso, che viene da fiori rossi, che, aperto, è rosso e umido, con un profumo inebriante non poteva che accendere la fantasia dell’uomo, facendolo diventare un simbolo femminile di sessualità feconda, di rinascita.

 

La melagrana era attributo di Iside, dea della magia, della fertilità e della maternità, una delle divinità più importanti del pantheon egizio. Era legata al mito di Demetra, figlia di Crono, sorella di Zeus e dea della terra – come Poseidone suo fratello lo era del mare –  della natura e delle messi, e di sua figlia Persefone la quale, incauta, mangiò chicchi di melagrana nel mondo sotterraneo rimanendovi imprigionata per alcuni mesi l’anno “inventando” così l’inverno… ma anche la primavera, al suo ritorno presso la madre.

 

Cerere e Proserpina erano le medesime divinità, ma per i Romani, i quali, tra l’altro, chiamavamo la melagrana malus punicam (da lì Linneo, nel XVIII secolo, fece derivare il nome) non perché sapessero per certo che i melograni fossero di origine punica, ovvero nordafricana, ma solo perché da quelle parti ne crescevano in abbondanza. Cesti di melagrane erano portati in processione in tutte le (numerose) feste in onore della dea Cerere, ma erano presenti anche in tutte quelle (numerose, numerosissime) manifestazioni e rituali legati ai cicli della natura e del lavoro nei campi.

 

La cultura cristiana andò liscia nell’attribuire la melograna a Maria; era pur sempre una donna, e i numerosi semi chiusi dentro il frutto divennero simbolo di unità e fedeltà. Se il succo, facilmente associato al sangue, fu simbolo di martirio; i numerosissimi semi simboleggiarono la propagazione della parola di Dio. Le opere d’arte, pittoriche e non solo, che ritraggono Maria con una melagrana in mano non si contano: la Madonna della Melagrana di Jacopo della Quercia di inizio XV secolo, quella di Botticelli della fine del secolo, e quella attribuita a Leonardi da Vinci degli anni centrali del medesimo. Ma, in realtà, melagrane appaiono anche nell’antico testamento, in particolare nel Cantico dei Cantici, dove la simbologia è chiarissima e non castissima. O forse sì: interpretatela come volete, tanto sono duemila anni che lo fanno tutti.

 

Comunque il melograno è di certo l’albero del Paradiso, com’è scritto nel Corano, e ci sono alcuni studiosi che vagheggiano che anche Adamo, Eva e il ssssserpente si siano incontrati fatalmente sotto un melograno e non sotto un banale melo. E Ganesha? Il simpatico dio con la testa di elefante monozannuto a cui si attribuisce la facoltà di rimuovere tutti gli ostacoli ha molti nomi e uno di questi è Bijapuraphalasakta, ovvero colui che ama la frutta dai molti semi.

 

E poi arriva Garcia Lorca nel 1921: La granada es como un seno (…) la granada es corazón (…) la granada es la sangre (…) porque eres luz de la vida, hembra de las frutas… E in mezzo secoli di arte, poesia, letteratura, esoterismo, massoneria.

 

Se i valori simbolici sono stati vivi e presenti per tutto il corso della storia nel mondo occidentale, così non si può dire di quelli culinari. Il gusto di berne il succo con l’avvicinarsi dell’anno Mille andò via via scemando; nel Medioevo i chicchi venivano aggiunti quasi soltanto ai ripieni di carne di volatili e selvaggina e, nel corso dei secoli – e ancor oggi è così –, si cominciò a utilizzare quasi esclusivamente il succo come bevanda o per farne sciroppi a complemento di sorbetti, gelati e granite. I chicchi interi spuntano a Natale come decorazioni di insalate e creme dolci.

 

Nella cucina mediorientale ed egiziana, invece, la melagrana è ancora “un ingrediente” in innumerevoli insalate; con le melanzane calde o fredde, intere o in crema; nei ripieni in cui si mischiano carni – soprattutto agnello – verdure e frutta. Il succo è amatissimo come ingrediente della marinatura delle carni e poi c’è la melassa. La melassa di melagrana è onnipresente: il succo puro – senza né zucchero, né limone – viene fatto sobbollire fino a che non si addensa, tutto qui. Il gusto acidulo e dolce, fresco e terroso nello stesso tempo è meraviglioso: è una di quelle cose che dà dipendenza. Io l’ho scoperta anni fa e non ne posso più fare a meno.

 

Raccogliere il succo delle melagrane per poi, eventualmente, se ne avete davvero tanto, darvi alla preparazione della melassa, è facilissimo. Nessuna abilità particolare, solo tanta, tanta pazienza. Alcuni suggeriscono di spremere i frutti tagliati in due come fossero arance con un normale spremiagrumi, anche elettrico, ma è una fatica fisica immane, perché le melagrane non si lasciano manipolare senza opporre resistenza, credetemi…, e poi si sporca ovunque e si disperde un sacco di succo prezioso.

 

La soluzione migliore per preservarvi le braccia e la cucina è sgranare con calma i frutti, raccogliere tutti i chicchi in una o più insalatiere e poi, pochi per volta, frullarli nel mixer. Filtrare attraverso un colino a maglia fittissima – ottimo quello per tisane e camomilla – direttamente in barattoli (perfetti quelli alti e stretti della passata di pomodoro) o bottiglie aiutandosi con un imbuto. Infine raccogliere i semi rimasti in un colino più grande e pressarli dolcemente ma fermamente sopra una ciotola raccogliendo ancora un po’ di succo. Imbottigliate subito anche questo: non si deve ossidare. Va poi conservato frigorifero.

 


Combattendo con la tentazione di gustarvelo così, a bicchieroni, per preparare la melassa versatelo in una casseruola dal fondo spesso e lasciatelo consumare su fuoco dolcissimo (usate una retina spargifiamma) rimestando di continuo. Quando avrà la consistenza dello sciroppo la vostra melassa di melagrana è pronta. Chiudetela subito in bottiglie di vetro nero (o marrone, comunque molto scuro) e poi usatela sulle insalate, sulle verdure, sulla frutta, sul pesce, sulle vellutate, sul gelato, sul formaggio, sulla ricotta, ovunque!

 

 

 

 

 

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