Questi dolci che vi mostro oggi sono
usciti dalle abili mani della mia amica Graziella (con aiuto e supporto di marito
e figlia, ci tiene a precisare). Sono dolci splendidi, delicatissimi, dorati
sia per la presenza di uova nella pasta, sia per la frittura, sia per il miele
che li ricopre. Una goccia di sole nel piatto!
Questi dolcetti tipici del Carnevale
- ma che un tempo si facevano anche in occasioni di cerimonie, in particolare i
battesimi - sono una tradizione sarda diffusa più o meno in ogni angolo
dell’isola. Di zona in zona assumono diversi nomi e presentano alcune varianti
negli ingredienti, anche se non nel procedimento.
Tra Alà dei Sardi, Bitti e Pattada si
chiamano, appunto, origliettas; a
Nuoro sono orillettas, ma a Benetutti
son già orulettas. In Gallura
diventano uriglietti; a Ovodda
cambiano un po’ e diventano lorighettas.
A Orune possono sembrare tutt’altra cosa, perché le chiamano montecadas; a Bolotana montegadas. A Nule, infine, sono le ritzas.
Si tratta comunque sempre di una
lunga e stretta striscia di sottilissima pasta che viene tagliata con una
rotella dentata in ottone e variamente modellata (a fisarmonica, a ruota...),
quindi fritta e poi immersa nel miele aromatizzato.
La base dell’impasto è,
tradizionalmente, la semola di grano duro, che oggi viene a volte sostituita
con farina bianca, cui si aggiungono molte uova: anche 10 per un chilo. Qui
iniziano le varianti: in alcuni casi si aggiunge strutto, in altri acqua; in
altri acqua e strutto. In certe famiglie poi si usa mettere un po’ di scorza
d’arancia nell’impasto, in altre un po’ di liquore di anice.
Le origliette (italianizzo il nome
per comodità) di Graziella, che vedete nelle foto, sono solo di semola rimacinata di grano duro e uova. È quindi
facile immaginare che ottenere una sfoglia perfetta, liscissima, sottilissima,
ma elastica e resistente non sia proprio facile. Ci vuole molta pratica e molta
pazienza, bisogna sentire l’impasto sotto le dita e capire qual è il momento
giusto per tagliare e modellare le forme desiderate.
La frittura avveniva un tempo nello
strutto e solo raramente nell’olio; a volte si usava addirittura quello che si
chiama ozu caso, ovvero il grasso
ricavato dalla fusione del formaggio. Oggi si usa praticamente sempre l’olio
extravergine di oliva nel quale i dolcetti devono essere sì completamente
immersi, ma brevemente; devono infatti rimanere chiari. Poi devono essere
appoggiati su carta “da pane” – oggi sostituita da più moderne carte assorbenti
- in modo da assorbire tutto l’olio in eccesso.
L’ultimo passaggio è quello nel
miele, che va scaldato con gli aromi preferiti e diluito con un po’ di acqua:
si può usare la scorza di agrumi (limone o arancia), si possono unire dei
liquori aromatici o un po’ di succo d’arancia filtrato. Il miele dev’essere... buono, un miele sardo profumato di macchia
mediterranea o di bosco (i dolci nelle foto sono stati immersi in miele di
castagno, che è il “miele di casa” di Graziella) e deve ricoprire interamente i
dolci. Poiché nella pasta non c’è alcun dolcificante, il risultato al palato
non è assolutamente stucchevole. Anzi, con il miele di castagno, l’equilibrio
tra il sapore delicato della pasta e quello avvolgente del miele è perfetto.
Torno per un attimo al nome. Secondo
questa citazione dal Dizionario Etimologico Sardo di Max
Leopold Wagner, che
recita:
«...
oril’èttas è, in effetti, il cat(alano) orelleta:
‘copa circular molt prima feta de pasta de farina amb ous, cuita amb oli i molt
ensucrada’»
pare
di capire che questi dolcetti avessero – e abbiano - dei parenti stretti in Spagna. Chissà chi avrà
preso da chi...
Grazie, Orata! Questo post è bellissimo (quanto son belli questi dolcetti sardi). Mi hai aperto un mondo... non vedo l'ora di assaggiarli ��
RispondiEliminaGrazie Lucia! Sei molto carina..., ma sbrigati a venire ad assaggiarli: il Carnevale sta per finire! :-)
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