Minestrone di ceci neri e cime di rapa



I ceci neri sono piccoli, molto rugosi, tenaci, saporiti e ricchi di ferro. I Ceci neri della Murgia carsica si coltivano nei territori di Acquaviva delle Fonti, Cassano delle Murge, Sant’Eramo in Colle e pochi altri comuni limitrofi (tutti in provincia di Bari) e sono un presidio Slow Food. 

Questi piccoletti si coltivano anche nella zona di Matera (sempre Murgia) e pure in Sardegna: li produce un’azienda agricola di Samatzai, in provincia di Cagliari.

Vanno tenuti a bagno a lungo, anche trentasei ore, e poi cotti comunque per un bel po’. Sono buonissimi da soli in insalata, poco adatti a farne creme; ma la morte loro, come si dice, secondo me è nei minestroni, con o senza pasta (qui, se vi interessa, c’è un’altra ricetta con i ceci di un anno fa).

L’altro giorno li ho abbinati alle cime di rapa (e a un po’ di guanciale fatto in casa) per una minestra bella sostanziosa. Non vi darò le quantità precise – ma solo indicazioni di massima – nella lista degli ingredienti, perché, si sa, il minestrone più ne fai meglio è. Infatti è ottimo anche riscaldato oppure, conservandolo in freezer diviso in porzioni, è pronto per quella sera che proprio non c’è tempo per cucinare.  



Ceci neri secchi (250 g circa bastano per quattro persone)
cime di rapa gambi compresi
brodo vegetale
patata
cipolla rossa
carota
sedano
aglio
pomodori secchi
guanciale
conserva di pomodoro (o pomodori pelati)
sale, peperoncino
olio extravergine di oliva

Mettere a bagno i ceci in abbondante acqua pulita. Sigillare il contenitore e... attendere per almeno 24 ore, ma 36 è meglio.



Nel frattempo mondare le cime di rapa, sminuzzare tutto (gambi compresi) e lavare bene. Tritare insieme sedano, carota, cipolla, aglio, pomodori secchi e patate.

Riscaldare il brodo vegetale (indicativamente è meglio averne a disposizione 2 litri poiché la cottura è lunga).

In una grande pentola, meglio se di coccio, scaldare qualche cucchiaio d’olio. Gettarvi il trito di verdure e mescolare per alcuni minuti.




Aggiungere le cime di rapa senza scolarle troppo e mescolare ancora. Quando il tutto sarà ben caldo aggiungere i ceci e cuocere per circa 15 minuti mescolando continuamente. Aggiungere la passata di pomodoro (o i pomodori pelati ben schiacciati) e poi coprire con il brodo vegetale.

Attendere che cominci a sobbollire, abbassare il fuoco (frapporre anche una retina spargifiamma) e chiudere la pentola con un coperchio.

Cuocere per circa un’ora e mezza mescolando di tanto in tanto e, eventualmente, aggiungendo brodo bollente.

Tagliare il guanciale a dadini e aggiungerlo alla minestra.



Cuocere ancora mezz’ora almeno, quindi assaggiare, regolare di sale e aggiungere peperoncino a piacere. Se i ceci risultassero ancora troppo duri prolungare la cottura di circa mezz’ora.

Attendere una decina di minuti prima di servire. Aggiungere un filo di olio crudo e portare in tavola.





Crema di cavolfiore rosa al caprino con gnocchetti di patate e semola



Questo cavolfiore rosa mi sta appassionando: il sapore è particolarmente delicato; fa bene perché è ricco di carotenoidi e antociani che sono antiossidanti; il colore mi piace moltissimo e... fa un sacco di scena. 

Questa ricetta è davvero semplice: il cavolfiore diventa una crema che si abbina al formaggio di capra ed evita i soliti crostini per sposare degli gnocchi di patate e semola. Una cosa sostanziosa, insomma, che può essere un piatto unico.




Per 4 persone:

500 g circa di patate farinose (4 patate medie)
semola rimacinata di grano duro
1 tuorlo
sale

500 g circa di cavolfiore viola (solo le cimette; il torsolo si può conservare per un minestrone)
75 g circa di formaggio cremoso di capra
¼ di cipolla bionda
brodo vegetale
2 cucchiai di olio extravergine di oliva
1 noce di burro
2 cucchiai di aceto di vino bianco

due noci di burro, timo e prezzemolo freschi

Lavare bene le patate sotto acqua corrente aiutandosi con uno spazzolino rigido, quindi cuocerle in acqua senza sale con la buccia fino a che saranno morbide.

Nel frattempo lessare al dente le cimette di cavolfiore in acqua leggermente salata e leggermente acidulata (più che altro per mantenere il più possibile il bel colore viola). Scolarle e tenerle da parte.

Quando le patate saranno cotte scolarle, sbucciarle e passarle con uno schiacciapatate lasciandole cadere direttamente sul piano di lavoro, possibilmente di marmo. Lasciar raffreddare.


Nel frattempo scaldare il brodo vegetale (circa 1 litro). Tritare grossolanamente il cavolfiore e la cipolla. Far appassire quest’ultima in olio e burro, quindi unire il cavolfiore e coprire di brodo lasciando sobbollire dolcemente.

Formare gli gnocchi: aggiungere il tuorlo alle patate, unire un pizzico di sale e una manciata di semola. Lavorare inizialmente con una forchetta e poi con le mani aggiungendo via via altra semola fino a che l’impasto comincia a prendere consistenza. Non eccedere. Dividere l’impasto in 4 parti, lavorare ancora brevemente ogni parte, dividerla ulteriormente in 10 parti e formare con ognuna una pallina grande come una noce con le mani infarinate. Man mano che sono pronti, adagiare gli gnocchi su un piano cosparso di semola.

Scaldare abbondante acqua salata per gli gnocchi. Nel frattempo lavorare il cavolfiore con il frullino a immersione per ottenere una crema. Se desiderate che sia particolarmente fine e liscia passatela anche con un setaccio. Allontanare dal fuoco e aggiungere il formaggio di capra a tocchetti mescolando fino a che non sia completamente sciolto. Non dovrebbe servire sale, ma assaggiate e regolatevi secondo il vostro gusto.

Far fondere velocemente il burro insieme alle erbe aromatiche sminuzzate per condire gli gnocchi.

Gettare gli gnocchi nell’acqua sobbollente.



Versare un mestolo di crema di cavolfiore in ogni piatto, scolare velocemente gli gnocchi appena vengono a galla e disporli su ogni piatto. Condire con il burro fuso alle erbe e, se piace, un’altra fettina di formaggio di capra. Servire immediatamente.



Insalata invernale in rosa



Amo la bellezza in ogni sua forma ma, come tutti, credo, ho i miei canoni personali. Forse vedo bellezza in cose che non a tutti suscitano il medesimo piacere: i cavolfiori, per esempio. Mi piacciono tantissimo. La loro forma tondeggiante, compatta ma non “intera”, il ripetersi di un modulo in modo irregolare, la punta sbarazzina delle foglie che lo avvolgono e... il colore. Il classico bianco opaco, pieno, pastoso, oppure il viola! 

Ed eccoci qui: il viola è il colore del 2018, no? Niente di meglio allora di un’insalata invernale per abbinare uno splendido cavolfiore viola, che viene direttamente dall’orto di una nuova amica, a ortaggi e semi di altri colori e a un po’ di formaggio; così, tanto per avere la quota proteica giornaliera.

Elenco gli ingredienti, ma non specifico le quantità: essendo un’insalata ognuno seguirà le proprie preferenze in quanto a proporzioni tra gli ortaggi e con il condimento.



Cavolfiore rosa/viola
soia verde secca (io ne ho usata una coltivata in Sardegna*)
finocchio
carota
cipolla bionda
sedano verde
olive verdi in salamoia con finocchietto
fresa (formaggio vaccino tipico della Sardegna centrale di cui trovate una descrizionedettagliata qui)

semi di sesamo
olio extravergine di oliva
aceto bianco di vino (io ne ho usato uno di Vernaccia)
sale, pepe bianco

Mettere a bagno la soia secca per almeno 12 ore in acqua fresca pulita. Scolarla e sciacquarla.

Togliere le olive dalla salamoia e sciacquarle bene; se occorre (ovvero se la salamoia è molto concentrata) lasciarle a bagno in acqua a temperatura ambiente per un'ora.

Mondare tutti gli ortaggi; suddividere il cavolfiore in cimette e affettare carote, finocchio, sedano e cipolla con una mandolina (attenzione alle dita!).

Tagliare il formaggio a cubetti di circa 5 millimetri di lato.



Far saltare i semi di sesamo in una padellina antiaderente, senza aggiungere condimento, fino a che non cominciano a colorirsi e a profumare di “tostato”.

Cuocere la soia in abbondante acqua, senza aggiungere sale, per circa 20 minuti. Assaggiare: dev’essere cotta, ma ancora consistente.

Sbollentare tutti gli atri ingredienti, separatamente, in acqua leggermente salata e acidulata con aceto bianco. Devono tutti mantenere una certa croccantezza.

Lasciar raffreddare e asciugare il tutto in modo uniforme stendendo le verdure su dei teli puliti.

Mescolare in una ciotolina il sale con olio e aceto (vinaigrette).  



Riunire tutte le verdure e le olive in una ciotola capiente, condire con la vinaigrette e mescolare bene. Lasciar riposare per circa 15 minuti. Aggiungere il formaggio e i semi di sesamo quindi mescolare ancora. Servire accompagnando con pane croccante.



 * 
-->sì, si coltiva in Sardegna fin dal 1985: date un’occhiata a questo articolo, che ormai possiamo ben definire “d’epoca” http://www.regione.sardegna.it/messaggero/1985_dicembre_13.pdf

Sant'Antonio: fuoco e pane. Un tour in Sardegna



Nella letteratura relativa ai santi (agiografia) si legge che Sant’Antonio era un eremita nato intorno al 250 in Egitto, il quale solo in età avanzata tornò tra gli uomini e si dedicò ad aiutarli. Fu certo di grande aiuto perché, si narra, scese agli inferi e, un po’ alla chetichella, si portò via il fuoco nascondendolo in un fusto cavo di ferula. Gli uomini avevano freddo, lui li riscaldò.

Basta questo per assimilare l’anziano Antonio, raffigurato sempre in compagnia di un fido maiale, al culto precristiano di Demetra. Demetra per i Greci era una divinità figlia di Crono e di Rea che sovrintendeva al susseguirsi delle stagioni e alla rinascita della natura dopo la “morte” invernale. Durante i Misteri eleusini, che prevedevano l’accensione di grandi falò, si celebrava il momento in cui Demetra ritrova la figlia Persefone, la quale, rapita e relegata agli inferi per metà dell’anno, torna sulla terra per farla rifiorire.

Non va dimenticato, infatti, che il 17 gennaio, giorno dedicato al santo, segna anche l’inizio del Carnevale, periodo di festeggiamento e di allentamento dei freni inibitori in onore della linfa che riprende a scorrere nelle vene della terra e delle piante per prepararsi alla primavera.

In tutta l’Italia rurale la notte tra il 16 e il 17 gennaio si accendono, nelle piazze e sui sagrati delle chiese, i falò dedicati a Sant’Antonio. In tutta Italia si riuniscono le comunità e quindi si mangia e si beve in armonia.



In Sardegna, regione ricchissima di tradizioni che vengono sempre onorate attraverso la condivisione del cibo, questa notte, la notte di Sant’Antonio, è l’occasione per vedere e assaggiare esempi di pani del ciclo del solstizio d’inverno. Pani speciali, rituali, che si modellano appositamente per Santa Lucia (13 dicembre), Capodanno (1 gennaio) e, appunto, Sant’Antonio.

In molti paesi questa notte si corre anche un’ardia: cavalli e cavalieri bardati a festa galoppano per le vie del paese e intorno al falò, passando per la chiesa principale dove la corsa si ferma per ricevere la benedizione. Vengono benedetti i cavalli, gli obrieri (coloro che portano le insegne del santo) e i pani. In altri paesi è lo stesso sacerdote che, girando intorno al falò, benedice il pane e ne getta una fetta tra le fiamme in segno di omaggio al santo.

I falò stessi sono diversi da zona a zona: in alcuni paesi si fa una pira di rami e piccoli tronchi cui si aggiungono frasche di rosmarino; in altri si sormonta il grande fuoco con pali con infilzate profumatissime arance; in altri ancora invece il fuoco si accende nel grande tronco cavo di un albero – sa tuva – abbattuto dal vento o dal fulmine, scelto con grande anticipo e trasportato sulla piazza del paese.

Ovunque però si distribuiscono dolcetti, fette di pane con l’olio, vino – spesso spillato per la prima volta dopo la vendemmia – e piatti di stufato di maiale o di pecora bollita con cipolle e patate; oppure fave secche della precedente stagione cucinate con il lardo. Ovunque i bambini sono protagonisti: in alcuni paesi si modellano pani solo per loro, in altri vanno di casa in casa a gruppetti a chieder dolcetti, oppure li si incarica di portare i pani fatti in casa alla benedizione collettiva.



Ecco un piccolo tour virtuale dell’isola (parziale, perché il culto di Sant’Antonio è diffuso in moltissimi altri paesi) e dei pani rituali legati a Sant’Antonio.

A Bono (Sassari) esiste il grande cogone ‘e Sant’Antoni; una sfoglia tonda di circa quaranta centimetri di diametro sulla quale viene spalmata una riduzione di miele e di sapa (mosto cotto) con l’aggiunta di decorazioni a forma di spiga e di fiore, simboli della nuova stagione.

A Bottida (Sassari) si cuoce su pane ‘e s’ardia: un pane con zafferano, impreziosito da finissime decorazioni, che viene portato dall’obriere a cavallo, avvolto in drappi e nastri, nel tradizionale giro intorno al fuoco. A tutti quelli che assistono all’ardia viene offerto un dolce – sa thilicca – con strutto e zucchero, glassato e decorato da confetti colorati.



A Ovodda (Nuoro) il pane tradizionale del 17 gennaio è a forma di maiale, animale che accompagnava Demetra, così come Sant’Antonio. Ma si confeziona anche un pane con sapa e frutta secca, che un tempo si mandava a chi stava a guardia delle greggi negli ovili lontani dal paese: si riteneva che questo pane avesse potere protettivo per persone e animali.

A Silanus (Nuoro) si preparava un pane dolce con miele e sapa (mosto cotto) chiamato sa diadema, a forma di ghirlanda. Oggi è rarissimo.

A Dualchi e Sarule (Nuoro) si cuocevano tredici piccoli pani arricchiti con un po’ di strutto, da donare a tutti coloro che si chiamavano Antonio.

A Fonni (Nuoro) il sacerdote gira intorno al fuoco portando un pane dolce con la sapa e, al terzo giro, ne getta una fetta nel falò.

A Lodè (Nuoro) si facevano sos calistros, pani con poco zucchero dalla forma intrecciata.

A Torpè (Nuoro) invece si fanno ancor oggi piccoli pani intrecciati chiamati sos cogoneddos de Sant’Antoni.

A Nuoro città e in alcuni paesi della provincia come Oliena, Dorgali e Orosei si prepara su pistiddu: un dolce delicatamente decorato fatto di pasta violata (con strutto) ripiena di vino cotto e arancia, che dev’essere fatto rigorosamente in casa e quindi portato in chiesa per la benedizione. Nel nuorese un’altra curiosa tradizione, oggi non più in uso, prevedeva di cuocere il giorno di Sant’Antonio dei piccoli panini duri e compatti con una croce incisa detti sas balleddas de Sant’Antoni. Dovevano poi essere conservati in casa e gettati dalla finestra – con evidente valore apotropaico – in caso di calamità, tempeste o temporali estivi.

A Mamoiada (Nuoro) si cuoce ancora un pane addolcito con il miele – su coccone chin mele – a forma di uomo, animale (in particolare serpente) o frutta. Intorno al fuoco, accompagnati dal vino nero, non mancano mai sos papassinos nigheddus, dolcetti secchi con mandorle, noci, sapa, uva passa.



A Sedilo (Oristano) si modellavano sos treighi panes; ovvero tredici pani da tagliare a fette sottili da donare ai vicini per consolidare i legami sociali in vista della nuova stagione di lavoro nei campi. Si cuoceva anche sa panischedda con la sapa e le mandorle per i bambini e le bambine, che li ricevevano in cambio della recita scherzosa di una filastrocca.

Anche a Samugheo (Oristano) ricorreva il numero tredici, ma i pani venivano donati ai poveri del paese.

A Fordongianus e Paulilatino (Oristano) invece il pane per il 17 gennaio è una grande ciambella con uva sultanina, sapa e mandorle: sa pani manna.

A Scano Montiferro (Oristano) si cuociono pani con aggiunta di poca sapa, senza la frutta secca tipica di altre località, però con foglie di alloro e, a volte, miele e latte. Le foglie sono funzionali alla conservazione del pane, ma anche un omaggio al santo, il quale è raffigurato con un bastone ricavato dalla profumata pianta.

Ad Aidomaggiore (Oristano) i dolci di Sant’Antonio sono preparati rigorosamente con la sapa di ficodìndia e un procedimento un po’ diverso dagli altri dello stesso genere. La semola si aggiunge direttamente alla sapa mentre sobbolle, si lascia addensare, poi si aggiungono frutta secca e uva passa per poi stendere delle sfoglie spesse un centimetro, che vanno ripassate in forno a bassa temperatura.

A Cardedu (Ogliastra) il pane di sapa è decorato anche con una glassa di zucchero e confettini colorati.

La panificazione per Sant’Antonio prevedeva ovunque una lunga preparazione. Si macinava una semola di grano duro particolarmente scelta e fine e poi, a seconda delle tradizioni locali, andava ricavata la sapa a partire dal mosto d’uva o dalla polpa dei fichidìndia; andava preparato lo strutto e sgusciata la frutta secca; rinfrescata la pasta madre... Oggi sicuramente molte di queste operazioni preliminari sono rese più facili e comode da robot e strumenti moderni in generale; ma tempo, cura, amore e fantasia per le decorazioni sono sempre ingredienti fondamentali.



Molte informazioni per questo piccolo excursus le ho tratte da quattro testi per me importantissimi. Il primo è il bellissimo saggio illustrato, puntuale, e completissimo sul pane in Sardegna La sacralità del pane in Sardegna di Maria Iamundo De Cumis, pubblicato da Carlo Delfino Editore nel 2015. Il libro è ricchissimo di informazioni sui pani di Sant’Antonio, quelli antichi, quelli caduti in disuso e quelli ancora vitali. Il secondo è l’altrettanto bello e interessante Dolci in Sardegna. Storia e tradizioni, di Ilisso, 2011. Il terzo è il piccolo ma denso libro dell’amica Alessandra Guigoni La lingua dei santi, edito da Aracne nel 2016. Il quarto è una raccolta di saggi e contiene una irresistibile carrellata di immagini di pane di ogni genere e varietà di tutta la Sardegna: si tratta di I pani, di Ilisso. Altra fonte di informazioni e soprattutto di immagini, anche molto datate e perciò particolarmente interessanti, è il sito www.sardegnadigitallibrary.it/


La versione nostrana di una quiche, o meglio: torta di carciofi d’ispirazione francese


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Di quiche rivisitate in chiave sarda sul blog ne troverete altre, con ripieni vari. Questa, vista la stagione, è ai carciofi e comprende tutti ingredienti locali: dalla semola al burro di produzione isolana; dal guanciale fatto in casa alla Vernaccia; dall’aglio all’olio extravergine (che quest’anno è particolarmente buono!), fino, naturalmente, ai carciofi stessi, che vengono direttamente dal campo di un amico produttore.



Per 4 persone:

250 g semola grano duro Cappelli rimacinata fine
125 g di burro fresco
1 pizzicone di sale
acqua q.b.

5 carciofi (Carciofo spinoso di Sardegna Dop) non troppo grandi
100 g di guanciale
2 uova
5 cucchiai da tè di yogurt intero denso
2 spicchi d’aglio
¼ di cipolla bionda non tanto grande
Vernaccia di Oristano giovane
olio extravergine di oliva

+ aceto di mele

Setacciare la semola sulla spianatoia; aggiungere il burro morbido a tocchetti e cominciare  a impastare con la punta delle dita; aggiungere un pizzicone di sale e poca acqua a temperatura ambiente. Lavorare aggiungendo acqua solo se serve fino a ottenere una pasta morbida e liscia. Appena la pasta ha una buona consistenza smettere subito di impastare e lasciarla riposare in un luogo fresco per circa mezz’ora.



Nel frattempo mondare i carciofi eliminando le foglie del gambo, le parti più dure del gambo stesso, le foglie più esterne e le parti spinose. Man mano gettare i carciofi mondati in una grande ciotola con acqua ben fredda acidulata con qualche cucchiaio di aceto di mele.

In una padella capiente far scaldare qualche cucchiaio d’olio e aggiungere l’aglio e la cipolla affettati finemente. Bagnare con una dose generosa di Vernaccia e far stufare a fuoco dolcissimo.

Riprendere i carciofi, dividerli in quarti e affettarli finemente. Sciacquarli. Gettarli nella padella non appena la cipolla sarà diventata trasparente. Alzare la fiamma, mescolare bene per un paio di minuti, aggiungere circa ½ bicchiere d’acqua, riabbassare la fiamma e cuocere i carciofi fino a che saranno teneri.



Ungere la tortiera con un po’ d’olio (aiutandosi con un pennello) e spolverizzarla con un po’ di semola e portare il forno a 180° in modalità ventilata.

Riprendere la pasta. Appoggiare un foglio di cartaforno sulla spianatoia e stendere la pasta con il matterello sopra il foglio fino ad avere una forma rotonda poco più grande della tortiera in ceramica da 28 centimetri. Appoggiare la tortiera sopra la pasta quindi ribaltare il tutto; accomodare la pasta dentro la tortiera ed eliminare il foglio di carta. Sistemare i bordi in modo che siano di altezza omogenea e bucherellare sia il fondo sia i bordi con i rebbi di una forchetta.

Versare i carciofi (non dovrebbe esserci liquido di cottura; nel caso eliminarlo completamente e con cura) nel guscio di pasta e infornare sul ripiano centrale. Cuocere 10 minuti.

Nel frattempo sbattere due uova intere con una forchetta, aggiungere lo yogurt e mescolare bene. Ridurre il guanciale in dadini piccoli e uniformi.

Estrarre la torta dal forno, versare uova e yogurt sopra i carciofi in modo uniforme, quindi sistemare i dadini di guanciale sulla superficie della torta.



Reinfornare sul ripiano più basso per 10 minuti.

Per gli ultimi 10 minuti di cottura trasferire la torta sul piano più alto del forno e abbassare la temperatura a 160°.

Spegnere il forno e attendere 10 minuti prima di estrarre la torta senza aprire lo sportello, poi portarla direttamente in tavola.