Le mie orecchiette con le cime di rapa per il Calendario del cibo italiano



Come avrete avuto già modo di leggere su queste pagine
, con il 2016 ha preso il via un'iniziativa ambiziosa e interessante per chi ama il cibo e la cucina italiana.
Si tratta del Calendario del cibo italiano ideato, promosso e compilato dall'AIFB (Associazione Italiana Food Blogger), di cui faccio parte. 

Ogni giorno, per tutti i 366 di questo 2016, sarà possibile andare sul sito di AIFB e imparare, scoprire notizie e storie, copiare ricette relative a un ingrediente o a un piatto tradizionale italiano e – cosa sempre piacevole – vedere belle foto di cibo. Si va dai ceci alla cima genovese, dal panettone ai pizzoccheri, dalle lenticchie al risotto alla milanese, dal brasato alle sarde, dai tortellini in brodo al torrone... 

Ogni giorno un socio o una socia veste i panni dell’Ambasciatore e studia, scrive, cucina e raccoglie i contributi degli altri soci per dare un panorama il più possibile completo di come un ingrediente o un piatto italiano si possa distinguere e interpretare.

Ogni giorno è una “Giornata nazionale di...”; oggi, 28 febbraio, è la
giornata nazionale delle orecchiette 
con le cime di rapa.

Ambasciatrice di oggi è Enrica Gouthier del blog Il sole in cucina, che in questo articolo sul sito AIFB ci illustra tutto ciò che c’è da sapere su questo delizioso piatto della tradizione italiana.

Questo invece è il mio contributo
Le mie orecchiette con le cime di rapa 


Consapevole che per affrontare una ricetta così legata al territorio d’origine è necessario essere ben documentati e non affidarsi solamente al proprio vissuto di “mangiatrice”, ho letto diversi testi, consultato diversi siti internet e passato diverse impegnative ore a conversare con vecchi e nuovi amici pugliesi. Sono uscita ammaccatissima dalla discussione, ma con l'idea che... potevo almeno provarci.

Inizialmente avrei voluto fare le “orecchiette di grano arso” perché quando le ho assaggiate mi sono piaciute moltissimo, ma mi è stato impossibile trovare qui sull’isola la farina1 per farle e quindi mi sono affidata a una buona semola di grano duro varietà Senatore Cappelli. 

Varietà che Sardegna e Puglia hanno felicemente in comune: fu infatti selezionata nelle fertili terre della provincia di Foggia all’inizio del secolo da Nazareno Strampelli e, in seguito, trovò casa anche nelle pianure del Campidano. 

Per le cime di rapa non ci sono stati problemi: prese direttamente dal campo!



Nel frattempo le letture mi avevano insegnato una cosa: che, come accade qui con i notissimi “gnocchetti sardi”, anche in Puglia le orecchiette si chiamano in diversi modi a seconda della località: recchie, recchitelle, chianchiarelle, pociacche, recchjetedd, fiaffioli, facilletti, strascenàte, stacchiòdde...

Spigolando nel web per preparare questo post mi sono poi imbattuta in diverse ipotesi circa lorigine di questo formato di pasta. Non tutte mi sono sembrate attendibili, ma possiamo sicuramente dire che è un formato antico, diretta conseguenza della coltivazione del grano duro nelle fertili terre di Puglia, come del resto del Meridione dItalia.   

In molti siti internet ho inoltre letto che la più antica testimonianza della loro esistenza si può trovare in un documento notarile cinquecentesco conservato nellArchivio di San Nicola di Bari (uno dei più ricchi e completi di Puglia, nonché dei più antichi, visto che gli atti conservati partono dall'anno 939). Non so se sia vero, ma mi ripropongo di andare a andare a controllare di persona, non fossaltro che così potrei rivedere quellimpareggiabile capolavoro dellarte romanica che è la basilica di San Nicola di Bari.

Per quanto riguarda il condimento, poi, si dice un po’ ovunque che, anche se l’abbinamento con le cime di rapa è il non plus ultra, di certo sono ammesse anche altre soluzioni come il cavolfiore o un robusto ragù di carne (tipico della zona di Bari). È ovvio: le cime di rapa e i cavoli non ci sono tutto l’anno, ma sono una verdura legata alla stagione più fredda. Libertà di condimento poi in estate, dove il pomodoro non può mancare e dove non mancano neanche i felici matrimoni con il pesce.

Il punto è, in sostanza, l’abilità nel produrre la pasta; non è infatti un formato che si presti all’aiuto di macchine e attrezzi. Ci vogliono muscoli per impastare semola, acqua e sale e poi dita o punte di coltello abili a dar la forma giusta: ruvida da un lato, liscia dall’altro e concava al punto giusto, per accogliere il sugo.

Insomma... una volta raccolti gli ingredienti e riposto i libri mi sono buttata. Ho deciso di cucinare la versione totalmente vegetariana della ricetta, senza cioè aggiungere le acciughe nel condimento.  

Poi ho chiesto al mio “ritrattista di fiducia” di immortalarmi mentre impastavo. Devo dire che sono soddisfatta di entrambe le cose. 

Le mie orecchiette con le cime di rapa,
per due persone

300 g di semola rimacinata di grano duro

acqua, sale

500 g di cime di rapa freschissime

2 spicchi d’aglio

olio extravergine di oliva

peperoncino secco

Setacciare e disporre la semola a fontana su una spianatoia di legno, aggiungere un pizzico di sale e un po’ di acqua leggermente tiepida. Cominciare a mescolare con una forchetta, poi procedere con le mani aggiungendo via via altra acqua fino a ottenere un impasto molto sodo, ma liscio e omogeneo. Formare una palla e lasciar riposare sotto una ciotola sullo stesso piano di legno.

Mondare le cime di rapa, delle quali si utilizzano le infiorescenze, le foglie e i gambi escludendo solo la parte troppo dura. Lavarle e lasciarle scolare. Spezzettarle con le mani (non usare coltelli).

Riprendere la pasta, suddividerla in almeno otto parti (conservando quelle non ancora lavorate sotto la ciotola) e formare degli spaghettoni lunghi di circa 1 centimetro di diametro. Suddividerli in piccoli pezzi e procedere a fare le orecchiette trascinando ogni pezzetto sulla spianatoia con il pollice  - o con la punta arrotondata di un coltello – e poi rivoltandolo su se stesso con la punta delle dita. Man mano che si procede adagiare le orecchiette su un telo, evitando che si tocchino.









In una padella piuttosto larga scaldare abbondante olio extravergine di oliva insieme a due spicchi d’aglio tritati grossolanamente. Mescolare con un cucchiaio di legno sino a che l’aglio non abbia dato il meglio di sé, quindi spegnere e lasciar insaporire.



Porre almeno cinque litri di acqua salata in una pentola; quando giunge a bollore gettare le cime di rapa. Cuocere per circa 5 minuti. Aggiungere le orecchiette e cuocere per circa 3 minuti (conviene assaggiare, perché molto dipende dallo spessore della pasta).

Riaccendere il fuoco sotto la padella del condimento; scolare sommariamente pasta e verdura, gettarla nella padella, mantecare, aggiungere un poco di peperoncino secco tritato e servire immediatamente beandosi di quanto possono esser buone le cose più semplici.





Note:

1 La farina di grano arso un tempo si ricavava dai chicchi raccolti da terra dopo la bruciatura delle stoppie al termine del raccolto, il che poteva rappresentare l’unico modo di avere un po’ farina per pasta e pane per i più poveri. Ai giorni nostri si ottiene dalla macinatura di grano duro tostato. Chi vuol ottenere un risultato più “naturale” ancor oggi brucia il grano intero in un grande calderone con della paglia, poi lo porta al mulino, dove viene pulito delle parti più esterne e macinato nel rispetto delle norme di legge. Oggi questa farina - dall’aroma intenso e dal colore grigio – è impiegata anche nelle cucine dei grandi Chef e la si trova in vendita on line o nei negozi specializzati (anche se non di tutte le città, come ho potuto constatare).



Bibliografia:


La tradizione a tavola, Accademia italiana della cucina, 2015

Grande enciclopedia della gastronomia, Marco Guarnaschelli Gotti, 1990

Il cucchiaio d’argento, VIII edizione 1997

La pasta fresca e ripiena, Roberta Schira, 2009

La cucina regionale italiana: Puglia, 2008
Enciclopedia della cucina, cur. Allan Bay, 2010

La cucina pugliese, Giovanna Quaranta, 2009

La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, S. Serventi – F. Sabban, 2000

La pasta, Orietta Zanini De Vita, 2004



Polpette (grandi) di cavolfiore e pancetta



Polpette. Da bambina le mangiavo spesso, fatte, secondo la tradizione milanese, con la carne lessa avanzata dal pranzo della domenica e mortadella o luganega, profumate di noce moscata e poi fritte nel burro spumeggiante.

Poi le ho assaggiate preparate in mille modi: di carne, verdure, un misto di entrambi, pesce, legumi e cereali e... quelle di polpo, poi, sono fantastiche! 
E al burro, con l’olio, in forno, nel sugo di pomodoro. Una delle preparazioni più versatili di qualunque cucina, in fondo.


Però, chissà perché, io non le cucino praticamente mai. Alcuni giorni fa mi sono sentita ispirata e ho messo insieme queste, fatte di cavolfiore e pancetta di un maialetto allevato a regola d’arte; cucinate al forno e belle grandi, tanto che, per non saper né leggere né scrivere, ho pensato di metterle dentro degli stampini (quelli per muffin). Il che si è rivelato una buona mossa.



Per 15 polpette grandi

600 g di cavolfiore già mondato
300 g di carne di pancetta di maiale
60 g di pane fresa di Gavoi o pane carasau
1 uovo
1 spicchio d’aglio
qualche stelo di prezzemolo fresco
sale e pepe
burro
olio
latte fresco
semola per gli stampi
aceto di vino bianco

Dopo aver mondato il cavolfiore, dividerlo in cimette e tagliare a pezzi il torsolo, quindi lessare tutto in poca acqua leggermente salata e acidulata con aceto di vino bianco.

Mentre cuoce la verdura, mettere a bagno il pane (la fresa è un pane molto croccante, sottile e delicato e lo si può sostituire con del pane carasau) in acqua e latte in parti uguali.

Ridurre la carne di maiale a pezzetti. In una padella far scaldare pochissimo olio con lo spicchio d’aglio leggermente schiacciato; gettarvi i pezzetti di carne e far rosolare per pochi minuti. Tenere da parte.

Scolare molto bene il cavolfiore e lasciarlo asciugare su uno strofinaccio separando bene i pezzi.

Strizzare bene il pane.

Nel bicchiere grande del mixer versare: la carne (lasciare o togliere lo spicchio d’aglio secondo i gusti), il pane, il cavolfiore, l’uovo, il prezzemolo, un pizzico di sale e un po’ di pepe appena macinato. Azionare a scatti fino a ottenere un composto omogeneo, ma non troppo fine.

Accendere il forno e portarlo a 180°. Imburrare 15 stampini per muffin e cospargerli di semola, quindi sistemare una cucchiaiata abbondante di composto di carne e cavolfiore in ogni stampino. Aggiungere (se piace) un fiocchetto di burro su ogni polpetta.

Cuocere sul ripiano centrale del forno per dieci minuti; trasferire gli stampini sul ripiano più basso e cuocere altri 10 minuti. Infine portarli sul ripiano più alto, accendere il grill e cuocere circa 5 minuti.

Sformare le polpette delicatamente, sistemarle sul piatto di portata e servire.


Cavolo cappuccio viola con quenelle di polenta



Il cavolo cappuccio stava lì nel frigorifero da diversi giorni, occupando da solo mezzo ripiano con la sua massa viola. Il punto era trovargli un impiego non scontato.

Avevo pensato di fare pasta fresca, magari orecchiette per esercitarmi in vista della loro giornata nazionale (28 febbraio), quindi ho aperto la dispensa in cerca del barattolo della semola, ma ho trovato prima quello della farina di mais per polenta.

Polenta! Poteva anche essere una buona idea, ma il cavolo? Al cavolo il compito di dare colore e sapore.



Per quattro persone, piatto unico

½ cavolo cappuccio viola
250 g di farina di mais per polenta
2 l di acqua
3 spicchi d’aglio
5 acciughe sotto sale
burro
olio extravergine di oliva
vino bianco secco
prezzemolo fresco
sale
pepe

Mondare il cavolo cappuccio, tagliarlo a striscioline sottili, lavarlo molto accuratamente.

In una pentola dal fondo spesso scaldare circa 2 litri di acqua con un pizzicone di sale grosso e una generosa noce di burro. Quando l’acqua inizierà a bollire, gettarvi in un colpo solo la farina di mais e mescolare velocemente con una frusta robusta in modo che non si formino grumi, quindi abbassare il fuoco al minimo e lasciar cuocere la polenta a pentola semicoperta per circa 45 minuti mescolando ogni 5 minuti con un cucchiaio di legno.

Quando la polenta sarà pronta, aggiungere circa un cucchiaio di prezzemolo fresco appena tritato; quindi prenderne una cucchiaiata per volta e, aiutandosi con un secondo cucchiaio, formare delle grosse quenelle (una ventina). Deporle a raffreddare su un foglio di carta forno appoggiato, se possibile, su un piano di marmo.

Nel frattempo, in una casseruola dai bordi piuttosto alti, scaldare due cucchiai di olio extravergine di oliva con una noce di burro, aggiungere tre spicchi d’aglio a fettine e 5 acciughe salate ben sciacquate. Mescolare cercando di spappolare le acciughe e bagnare con un spruzzo di vino bianco secco. Dopo qualche minuto aggiungere il cavolo cappuccio ancora grondante acqua, chiudere con il coperchio e lasciar stufare a fuoco molto dolce per almeno 30 minuti.

Quando le quenelle saranno ben sode e il cavolo cappuccio ben cotto, scaldare un po’ di olio e una noce di burro in un tegame largo e basso; appena inizia a sfrigolare aggiungere una persa di sale e disporre le quenelle una vicina all’altra e farle rosolare rigirandole con una spatola almeno due volte. In ultimo aggiungere pepe appena macinato.

Disporre nei piatti un po’ di cavolo cappuccio e quattro quenelle e servire subito. Tenere le altre in caldo per il “secondo giro”.



Torta al profumo di mandarini



La città in cui vivo da quasi un decennio ha ben poco in comune con quella dove sono nata. Dimensioni, clima, gente, ritmi... tutto è diverso. I giardini interni dei palazzi di fine ‘800 però sono comuni a entrambe, anche se poi le specie di piante che vi si trovano sono decisamente differenti.

Qui prevalgono palme e agrumi e proprio da uno di questi “alberi segreti”, vecchio di quasi cent’anni, una cara amica ha staccato per me questi meravigliosi mandarini che hanno riempito la casa del loro profumo per giorni.



La pianta non ha mai subito alcun trattamento e non è mai stata innestata, quindi i frutti sono strapieni di semi, il che li rende un po’... laboriosi da mangiare. Ho pensato quindi di utilizzarne il succo per una torta, ma, tra i miei libri e il web, non sono riuscita a trovare una ricetta che mi soddisfacesse.

Allora sono andata un po’ a naso, fidandomi solamente della mia (scarsa, per altro) esperienza in tema di dolci. Niente farina 00, ma semola rimacinata di grano duro sardo, niente zucchero raffinato, ma solo zucchero grezzo di canna e niente lievito. Il risultato? Una torta sorprendentemente morbida e profumatissima.



Per una tortiera da 24 cm di diametro

170 g di semola rimacinata di grano duro
120 g di zucchero di canna
100 g di burro
4 uova intere
3 mandarini

+
1 cucchiaio di zucchero di canna
2, 3 cucchiaini di zucchero a velo

Accendere il forno in modalità statica e portarlo a 180°. Foderare di cartaforno una tortiera (aiuterà bagnarla con acqua fredda e strizzarla bene, così da modellarla meglio sui lati della tortiera).

Lavare un mandarino, sbucciarlo, ripulire bene ogni spicchio da filamenti e scarti. Eliminare la parte bianca interna della buccia, quindi tritarla con la mezzaluna (non con un apparecchio elettrico). Spremere gli altri due mandarini e ricavare più o meno 50 g di succo.

Sciogliere il burro e lasciarlo intiepidire, quindi unirlo al succo di mandarino aggiungendo anche le bucce tritate.

Immergere una ciotola in un bagnomaria già caldo. Versarvi lo zucchero e le uova. Con una frusta e movimenti lenti ma costanti montare il tutto fino a che non abbia più o meno raddoppiato il volume. Questo è il procedimento che, in genere, si usa per la pasta genovese, che è molto simile al pandispagna. Utilizzando però lo zucchero di canna, il risultato sarà meno spumoso e meno arioso e il composto sarà scuro.

Allontanare la ciotola dal bagnomaria e unire la semola a pioggia alternandola al composto di burro e mandarino. Mescolare bene, controllare che non ci siano grumi.

Versare nella tortiera e infornare per 30 minuti a 180° e poi cuocere ancora circa 10 minuti a 100°. Estrarre la torta dal forno, toglierla subito dallo stampo aiutandosi con i lembi della cartaforno e lasciarla raffreddare su un griglia coprendola con un tovagliolo.

Nel frattempo sciogliere un cucchiaio di zucchero di canna in un pentolino dal fondo spesso, aggiungere 1 cucchiaino d’acqua e gli spicchi di mandarino ben puliti. Mescolare continuamente con delicatezza per circa 5 minuti, quindi stendere le fette di mandarino su un pezzetto di cartaforno e lasciarle raffreddare completamente.



Sistemare la torta sul piatto di servizio e cospargerla di zucchero a velo, poi decorala con gli spicchi di mandarino caramellati.

Ottima anche il giorno dopo.


Seppie con ceci e lenticchie




Ho la fortuna di potere avere spesso a disposizione del pesce freschissimo... e senza nemmeno passare dai banchi del mercato: un giovane amico pescatore me lo consegna direttamente a casa. Poiché sa che in famiglia amiamo in particolar modo seppie, calamari e polpi, non manca mai di avvisarci quando ne pesca. Stufati con il pomodoro, lessati e conditi in insalata, fritti, con le patate, con i piselli (in stagione), ripieni, in zuppetta, nel sugo per la pasta; le possibilità sono moltissime.

Questa volta il pescato comprendeva un chilo abbondante di seppie di varie dimensioni e ho voluto sperimentare una preparazione che sta a metà tra la minestra e lo stufato accostandole alle lenticchie e ai ceci. I ceci sono rigorosamente sardi, piccolini e saporitissimi; le lenticchie invece sono quelle nere chiamate Beluga, scelte soprattutto per il colore particolare.



Per due persone, piatto unico

1 kg di seppie freschissime di medie dimensioni
100 g di ceci secchi
75 g di lenticchie nere Beluga
sedano, carota e cipollotti
pomodori secchi sotto sale
aglio
salvia fresca
olio extravergine di oliva
peperoncino in polvere

Un’operazione da fare in anticipo è ammollare i ceci nell’acqua per almeno 12 ore, ricambiandola un paio di volte. Quindi scolare bene e risciacquare. Le lenticchie nere Beluga, invece, non necessitano di ammollo.

Pulire le seppie da interiora e “osso” facendo attenzione a non rompere la sacca dell’inchiostro; eliminare anche occhi, becco e la pelle. Separare i tentacoli e le parti edibili della testa e tenerle da parte: serviranno per condire una pasta e si possono surgelare. Se è intatta, si può conservare anche la sacca dell’inchiostro, ma va usata entro 24 ore. Tagliare invece a piccoli pezzi tutto il resto e sciacquare bene.

Cuocere al dente i ceci e le lenticchie separatamente. In ogni pentola mettere cica 1,5 l di acqua, un gambo di sedano una piccola carota, un cipollotto e un pizzico di sale. Le lenticchie cuoceranno in non più di 35 minuti; per i ceci potrebbe volerci più del doppio. Scolare le lenticchie e gettare il brodo, che sarà nero e quindi non riutilizzabile. Scolare i ceci e conservare tutto il brodo, filtrandolo.



In una casseruola dal fondo spesso o, meglio, in una pentola di coccio far scaldare qualche cucchiaio d’olio extravergine, aggiungere un paio di spicchi di aglio tritati e almeno tre pomodori secchi ben sciacquati e tagliati a striscioline. Quando l’olio comincerà a sfrigolare gettarvi le seppie e mescolare continuamente per 5 minuti, quindi coprire e lasciar cuocere a fuoco dolcissimo per circa 20 minuti.

A questo punto aggiungere i ceci e tutto il loro brodo di cottura e alcune foglie di salvia fresca. Continuare a cuocere a fuoco basso, ma a pentola scoperta, per altri 10 minuti circa. Aggiungere le lenticchie e cuocere per altri 10 minuti.

La consistenza sarà quella di una zuppa densa. Aggiungere sale solo all’ultimo e solo se serve. Regolare anche di peperoncino, mescolare e servire con pane casereccio a fette.